Pur essendo molto popolare, il biopic – o film biografico – è un genere che nasconde non poche trappole: ogni storia necessita di conflitti, ma a dispetto di quanto si possa pensare non tutte le grandi personalità hanno vissuto vite piene di tragedie e dramma. Capita spesso quindi che queste “storie vere” vengano alterate per avvicinarle a una narrazione classica, o che nel tentativo di realizzare una buona pellicola ci si dimentichi di ciò che ha reso la figura protagonista degna di essere raccontata.



Non è questo il caso di Respect, debutto alla regia di Liesl Tommy sulla vita di Aretha Franklin, la regina del soul. La struttura è la stessa che abbiamo visto in film quali Bohemian Rhapsody e Rocketman: dalle origini dell’artista alla sua ascesa si passa per liti familiari, amori e momenti di oscurità, salvo poi risollevarsi con una maestosa esibizione finale. Ciò che contraddistingue questa pellicola è la sua protagonista: Aretha Franklin ci viene mostrata come una donna eccezionale ma non priva di momenti di insicurezza, ed è proprio nella sua capacità di affrontarli a testa alta che risiede la sua vera forza. Impresa non facile: tra traumi infantili, abuso coniugale e problemi di alcolismo a vita della cantante non ha certo bisogno che le vengano ricamati sopra conflitti inesistenti. 



Le difficoltà a cui va incontro Aretha non vengono né convenientemente nascoste né sviscerate in maniera impropria, e il film riesce a intrecciarle con la carriera dell’artista senza per questo romanticizzarle: come un diamante sottoposto a una violenta pressione, Aretha Franklin incanala le sue passioni contrastanti nella musica, diventando una figura di riferimento per migliaia di persone che ne condividono le avversità. La colonna sonora documenta la sua ricerca di un posto nel mondo, dai suoi primi passi al singolo che dà il nome alla pellicola fino al record di vendite Amazing Grace, culmine emotivo della storia.



Mentre le canzoni in sé non hanno bisogno di alcuna lode, l’interpretazione del premio Oscar Jennifer Hudson merita le luci del riflettore: dopo il disastroso Cats, la prova della Hudson regge l’intera pellicola e ne costituisce l’anima stessa, un ritratto curato nei minimi dettagli sia nei momenti di determinazione che in quelli di chiusura e malinconia. La regia, spesso trasparente, si limita a supportare l’esibizione della protagonista e a valorizzarne le doti canore e attoriali: per quanto i momenti cantati facciano la parte del leone, ciò che rimane più impresso è un “no” proclamato in una delle scene di dialogo, violentemente catartico grazie allo sforzo combinato di Jennifer Hudson e del regista.

Oltre ai soliti conflitti familiari e amorosi, un altro elemento di sceneggiatura che risalta in Respect è quello della fede: la chiesa battista fa da sfondo non solo a esibizioni canore in stile Blues Brothers – in cui tra l’altro figura Aretha Franklin stessa – ma anche alla vita dell’artista. Da una parte la religione la sostiene nei momenti di crisi e la sprona a essere la versione migliore di se stessa, dall’altra viene usata come arma dal padre pastore, la cui possessività nei confronti della figlia costituirà uno dei primi ostacoli alla sua emancipazione. Nonostante ciò, la fede viene mostrata nel suo complesso come una forza positiva: forse la cosa non dovrebbe sorprendere, considerato il suo legame con il movimento dei diritti civili nel contesto della storia, ma non era stato lo stesso per il biopic su Tolkien del 2019, dove non si faceva la minima menzione del suo credo a dispetto dell’importanza che esso aveva per l’autore.

Tornando al movimento per i diritti civili degli afroamericani, il film mostra il legame di Aretha con il dottor King e la reazione al suo assassinio, ma l’impegno politico della cantante è più menzionato che effettivamente mostrato, e forse gli si sarebbe potuto dedicare più spazio. Per quanto il film gestisca a dovere il suo minutaggio di due ore e venti, alcuni passaggi tra un periodo e l’altro della vita dell’artista mutano la sua caratterizzazione in maniera eccessivamente improvvisa, e la continua menzione dei “demoni” di Aretha da parte di vari personaggi nel tentativo di dare al film un tema unificante risulta alquanto forzato.

Respect si dimostra un ottimo film biografico che brilla della luce di Jennifer Hudson, la cui performance include anche Here I Am (Singing My Way Home), brano originale da lei scritto. Forse si sarebbe potuti andare oltre i canoni del genere, considerata la statura della figura protagonista, ma pur attenendosi a essi risulta comunque una visione elettrizzante e capace di scuotere lo spettatore.

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