James e Myka Stauffer sono una coppia di influencer statunitensi che tre anni fa hanno deciso di ampliare la loro famiglia, composta da quattro figli biologici, con un figlio adottivo, Huxley, di origini cinesi e affetto da autismo. Gli Stauffer basano il proprio business su una serie di contratti con aziende che li pagano per usare i loro prodotti nella vita quotidiana: la vita dell’influencer consiste nel “far finta di vivere” e di legare la propria storia positiva – e le emozioni che ne conseguono – alla percezione dei prodotti usati, quasi fosse possibile per un cliente poter sperimentare un po’ di quella positività acquistando gli articoli stessi.



Lo storytelling che si costruisce attorno alla comparsa della merce è quindi essenziale per determinare il valore del brand e la sua possibilità di affermazione sul mercato. Per questo un influencer deve vivere tra molte bugie: per il semplice motivo che non esiste una vita che funzioni alla perfezione o che segua tutte le fasi della narrazione descritte da Campbell in L’eroe dai mille volti.



La vita è imperfetta, sporca, malfatta, abbozzata: non si piega a idealità o misure, perché il suo peso specifico è il mistero. Proprio per questo motivo il mondo degli Stauffer è crollato quando hanno dovuto ammettere che non sapevano come comportarsi davanti a un figlio autistico, che nessuno aveva mai descritto loro la qualità di presenza necessaria per potersene prendere cura: Huxley era troppo reale per poter diventare protagonista di un’epica finta e non poteva più, pertanto, continuare a stare con loro. Così lo hanno restituito, dopo averlo tenuto con sé nella delicatissima età che va dai quattro ai sette anni.



Sarebbe facile dire che lo hanno dato indietro come un pacco, ma sarebbe riduttivo: nel loro gesto così apparentemente disumano e sprezzante, nel loro rinegoziare la propria genitorialità come fosse un contratto di carattere merceologico dotato di codice Ateco, gli Stauffer hanno offerto al mondo e a chi li segue una testimonianza di che cosa significhi fare esperienza di una realtà concreta, ossia il fatto dell’essere mossi, dell’essere spostati, dell’essere concretamente toccati in modo da sviluppare una risposta, un’azione.

In questo tempo di distanze e di tempi dilatati la realtà rischia di non toccare più l’uomo, di non generare più un’esperienza. Tutto diventa vuota parola, astratto contenuto adattabile ai paradigmi di una qualunque ideologia, mentre l’incontro – il rapporto con le cose – produce ferite, produce cicatrici, produce promemoria che sollecitano una presa di posizione, che diventano provocazione a un cammino, a una strada. Quando l’uomo ritrova lo spazio e il tempo di un’esperienza reale degli oggetti del vivere, delle cose, delle emozioni, è allora che entrano in crisi gli imperi, i finti modelli di possesso della realtà fondati su storie e narrazioni che non sono altro che bugie, alimentate ad arte per non far emergere la fragilità, la piccolezza, l’imperfezione. Tutto ciò, insomma, che è la vera anima della vita.

James e Myka adesso non hanno più gli sponsor (tutti li stanno abbandonando), ma – se vorranno – potranno avere finalmente un’esistenza concreta. E un bambino che, forse, li aspetta da qualche parte su questa terra. Tenutario della merce più preziosa che esista e che nessun influencer può promuovere, la merce che rende davvero genitori, quella di un impossibile perdono.