L’ultimo Dpcm varato ieri dal governo ha indicato le attività commerciali in cui dal 1° febbraio sarà possibile continuare ad accedere senza green pass: supermercati, farmacie, parafarmacie, uffici giudiziari e uffici aperti al pubblico delle forze di polizia.

Ma la certificazione verde dovrà essere esibita in tutti gli altri esercizi commerciali: dai tabaccai, alle banche e agli uffici postali. Intanto in Gran Bretagna – così come si apprestano a fare Francia, Israele e altri paesi europei – Boris Johnson ha deciso di allentare alcune misure restrittive anti-Covid, a partire proprio dalla revoca del green pass. E l’Italia? Avendo uno dei tassi di vaccinazioni più alti, possiamo permettercelo? “Sì, si possono gradualmente allentare le misure restrittive – risponde Mauro Pistello, direttore dell’Unità di Virologia presso l’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa e vicepresidente della Società italiana di microbiologia – ma nel contempo dobbiamo rafforzare le vaccinazioni e monitorare i soggetti con i sintomi più gravi, individuando le nuove varianti, così da poter giocare d’anticipo”.



La scelta di Boris Johnson non è solo un azzardo? È una strada percorribile?

È vero che gli inglesi sono molto più pragmatici e a volte più spregiudicati di noi in ambito terapeutico, ma in un momento in cui l’ambito sanitario è da tanto tempo sotto pressione ed esposto a costi che alla lunga possono risultare insostenibili, la possibilità di allentare un po’ le restrizioni parte da una constatazione sotto gli occhi di tutti: la vaccinazione protegge o quanto meno limita moltissimo i danni a seguito di un’infezione e trasforma una brutta malattia in qualcosa di più facilmente gestibile.



Quindi?

Siamo consapevoli che questo virus non se ne andrà, anzi si adatterà in qualche modo a noi e diventerà una delle tante infezioni con le quali dovremo convivere. Ma non saremo disarmati, sappiamo che il vaccino funziona e che, a mali estremi, le restrizioni che l’anno scorso hanno impedito la quasi totalità dei rapporti sociali possono essere un rimedio molto efficace.

Ma oggi le curve epidemiologiche giustificano questi espedienti?

Non dobbiamo rinchiuderci e isolarci tutti, generando tanti problemi o psicologici o economici, cechiamo piuttosto di convincere tutti a vaccinarsi, compresi i bambini più piccoli.



Perché?

È vero che nella stragrande maggioranza dei bambini l’infezione ha un decorso lieve, quasi sotto traccia, ma oggi proprio i bambini più piccoli rappresentano un serbatoio di altamente suscettibili e contribuiscono alla circolazione del virus. Dobbiamo creare una sorta di muro protettivo, specie in questo periodo che per condizioni climatiche è molto favorevole al virus.

Togliere le restrizioni significa “un liberi tutti” o ci sono misure e precauzioni da mantenere?

No, non deve essere un “liberi tutti”. L’allentamento delle restrizioni deve essere graduale e compensato da un forte incentivo alla vaccinazione, magari andando a somministrare i vaccini nelle scuole. Questa estate, per esempio, ci siamo seduti troppo sugli allori e davanti al calo dell’incidenza la campagna vaccinale ha registrato una frenata. Ora stiamo recuperando con gli interessi.

Dovessimo seguire la strada tracciata dagli inglesi, che cosa dovremmo fare?

Dobbiamo continuare a tracciare non tanto per sapere con chi vive e con chi è entrato in contatto un sintomatico, ma per capire qual è la variante che lo infetta, soprattutto se è vaccinato e se ha un decorso un po’ più preoccupante. È lì che si creano i presupposti per l’insorgenza di una nuova variante più resistente al vaccino.

In concreto?

Va predisposto un protocollo di monitoraggio e sorveglianza più mirati, più sostenibile come spesa sanitaria e in grado di tenere sotto controllo le varianti del Covid. Ma non è niente di nuovo né di rivoluzionario.

È quello che viene normalmente fatto da anni con i virus dell’influenza?

Esatto. Esiste infatti una rete di sorveglianza internazionale, che fa capo all’Oms, formata da diversi avamposti nazionali, nel nostro caso l’Iss, che a sua volta si appoggia a una serie di distretti sentinella che hanno l’obiettivo di monitorare i soggetti che hanno contratto un’influenza e sono magari ospedalizzati, per analizzare il ceppo del virus che l’ha colpito. Anche per il Covid va attivata questa sorveglianza stretta e capillare e questo avrebbe un doppio vantaggio.

Quale?

Da un lato, essendo l’infezione come un iceberg, dove la parte emersa è costituita dai malati, ma c’è poi un’ampia base di asintomatici che fa sì che il virus permanga in circolazione, se noi riduciamo via via il numero di persone che si infettano molto facilmente, è sperabile che la massa sommersa dell’iceberg vada progressivamente a ridursi. E dall’altro aiuterebbe anche le aziende farmaceutiche a preparare vaccini più mirati ed efficaci.

Green pass, mascherine, smart working, quarantene: va lasciato tutto com’è o si può cambiare?

Il green pass è stato uno strumento molto utile, una sorta di moral suasion alla vaccinazione. È stato criticato, ma introdurre un obbligo vaccinale diretto avrebbe probabilmente solo ingrossato le fila di chi non voleva immunizzarsi. A mio avviso, il certificato vaccinale andrebbe mantenuto.

Le mascherine?

Tra qualche settimana, se non ci sono assembramenti, si possono anche non indossare. Stiamo andando verso la bella stagione e sappiamo che con il sole e le temperature più miti dopo 10 minuti nell’aria il virus ha perso la sua capacità di infettare.

“Oltre a vaccinare tutti, bisognerebbe fare i tamponi alla stragrande maggioranza degli italiani e isolare gli infetti. Si uscirebbe dalla pandemia in 8 giorni”. Lo propone Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza. Che ne pensa?

Il tampone è un’istantanea. Ammesso e non concesso che sia sostenibile un’operazione del genere, si potrebbe fare un’indagine a tappeto per avere la fotografia, in quel preciso momento, delle infezioni. Ma come la mettiamo con i soggetti ancora in fase di incubazione? I tamponi di massa non sono una misura che ci assicura di poter eradicare l’infezione.

Che cosa ci dicono oggi le curve epidemiologiche? Cosa dobbiamo aspettarci nel breve?

I dati di questi giorni sono il risultato delle infezioni di circa una settimana fa, perché Omicron ha ridotto di molto i tempi di incubazione. Siamo al picco delle infezioni ed era fisiologico attendersi un’epidemia al galoppo, non solo perché eseguiamo più tamponi, ma anche perché l’inverno è una stagione di grande spolvero per i virus respiratori, come appunto il Sars-Cov-2. Credo che in presenza di una quota sempre maggiore di immunizzati il virus tenderà a estinguere la sua capacità infettante.

Alcuni virologi però paventano l’arrivo il prossimo autunno di una variante più feroce, che metterà insieme le caratteristiche delle varianti precedenti. È uno scenario plausibile?

Che possano emergere nuove varianti oggetto di nuove ricombinazioni tra varianti precedenti è probabile: se si verificasse, non mi stupirebbe, perché i coronavirus da animali fanno questo di mestiere. Ma non è detto che sia necessariamente più aggressivo e patologico, potrebbe succedere il contrario. Mi aspetto però che le nuove varianti che emergeranno in futuro saranno più resistenti all’immunità indotta dai vaccini o dalla guarigione.

C’è da preoccuparsi?

No, perché se monitoriamo bene queste varianti abbiamo le tecnologie per aggiornare e implementare i vaccini più adatti.

Quindi, faremo una quarta dose?

Adesso è inutile, però a fine estate, in previsione di una nuova stagione di infezioni respiratorie, potrebbe essere il caso di tornare a vaccinarci, ma saremo meglio attrezzati con sieri rivisitati in base alle ultime varianti.

(Marco Biscella)

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