Nel libro La crepa e la luce, Gemma Calabresi racconta il suo sorprendente incontro con Dio avvenuto il giorno dell’uccisone del marito. Il 17 maggio del 1972 Gemma aveva 25 anni, due bambini piccoli e un terzo in arrivo. Quella mattina nessuno aveva il coraggio di comunicarle la notizia. Fu don Sandro, il prete che l’aveva sposata, a sussurrare senza fiato in gola: “È morto!”.
“La violenza di quelle parole nemmeno pronunciate mi fecero crollare sul divano, come se il mio corpo fosse stato investito dall’onda d’urto di un’esplosione. Don Sandro si sedette accanto a me, mi prese le mani in silenzio. Non c’era niente da dire. Non so dopo quanto tempo accadde, ma a un certo punto sentii una sensazione fisica di immensa pace. La gente suonava alla porta, entrava, piangeva, ma io non ero più lì. Era come se qualcuno mi avesse presa in braccio, e io, abbandonata in quell’abbraccio, capii, seppi, senza ombra di dubbio, che ce l’avrei fatta, che la mia vita sarebbe stata sicuramente diversa, ma io e i bambini saremmo andati avanti, perché non ero sola. Mi tremano le dita mentre scrivo, ma sono certa che su quel divano, nel momento più basso della mia vita, nella solitudine e nella disperazione, ho incontrato Dio”.
Niente riempie la nostra vita di speranza più dell’annuncio che Cristo è risorto vincendo il male e la morte. Un annuncio che diventa concreto quando a testimoniarlo è l’esperienza personale di alcune persone. Se poi si tratta di uomini o donne che, nel rapporto con Dio, sono riuscite ad attraversare prove terribili, il loro messaggio si fa ancora più convincente.
Non che Gemma, dopo questo incontro, abbia avuto una vita facile. Ha dovuto lottare contro la terribile tentazione della vendetta, contro il baratro della tristezza, contro la ribellione verso una vita completamente diversa da quella che aveva sognato da bambina, ma non è mai stata sopraffatta dalla disperazione. “Alla fine della mia notte c’era sempre un bagliore, ed era il ricordo di quello che mi era accaduto sul divano dei miei genitori: Dio era venuto da me. E anche se era successo una volta sola, e poi mai più, dentro mi era rimasta la certezza che, per quanto mi dicessi e mi sentissi sola, io davvero sola non lo sarei stata mai. E per quanto mi dicessi e mi sentissi triste, la tristezza non si sarebbe mai tramutata in disperazione. Dio si era seduto accanto a me, non sarei mai stata disperata”.
Il racconto di Gemma brucia in un istante secoli e secoli di storia, facendoci comprende l’attualità delle parole di Gregorio Magno: “Se una volta tanto uno alza lo sguardo verso le cose eterne e in quelle cose che permangono immutabili fissa l’occhio del cuore […] più decisamente si attacca alle gioie interiori e meno sente esteriormente i dolori” (Comm. Gb. X, XVI, 32).
Oggi più che mai, dopo due anni di pandemia, nel mezzo di una guerra che ci travolge con il suo fiume di dolore, spaventati da tante incertezze, possiamo rinascere nella speranza solo alzando lo sguardo verso le cose eterne.
Anche se ce ne siamo dimenticati, è molto più semplice di quanto comunemente si creda, perché è Dio stesso a venirci incontro. Egli si fa carne, condivide la nostra vita, i nostri drammi, le nostre fatiche, persino la morte, mostrandoci come essa sia la porta che spalanca la nostra esistenza su un’eternità piena di luce.
Un’eternità che comincia fin d’ora in ogni gesto d’amore ricevuto e donato, negli spettacoli magnifici della natura, nella preghiera, nella grazia della sacra liturgia. Le parole della Chiesa, così cariche di una sconfinata sapienza che ci precede, accompagnano le nostre giornate introducendoci in una profondità di sguardo a cui, da soli, non potremmo accedere.
Tutto questo non è solo un’immagine poetica. Lo vedo rivivere ogni giorno nelle mamme che, tra mille impegni, riescono a ritagliarsi il tempo per venire a messa, per pregare e, in questo silenzio, trovano la pace e la gioia per affrontare tante fatiche. È ciò che mi testimoniano le famiglie che rimangono unite e tornano a dialogare seguendo una semplice regola di preghiera, o i giovani che escono dalla solitudine quando incontrano una comunità che li accoglie, diventando a loro volta seme di speranza per i compagni di scuola.
È ciò che vivo nella fraternità sacerdotale a cui appartengo. Con la sua regola essa mi aiuta ad alzare lo sguardo verso il cielo, a non dimenticare la luce di Cristo risorto che ha toccato il mio cuore quando avevo solo 12 anni, riempiendolo di una tale gioia che, a confronto, tutto il resto appare ben poca cosa.
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