“Alcuni della guardia giunsero in città e annunziarono ai sommi sacerdoti quanto era accaduto. Questi si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo: ‘Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all’orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia’. Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi”.
Questo passo del capitolo 28 del vangelo di Matteo appare oggi di una sconcertante attualità. Se infatti l’anno scorso la riflessione sulla Pasqua si era collocata in un momento nel quale l’impossibilità di recarsi nelle chiese e la generale, stretta osservanza del lockdown (forse perché circostanza ancora inattesa e inedita) ci avevano portato a sottolineare il parallelo con l’apparizione di Gesù Risorto ai discepoli, accaduta “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano” (Gv 20,19), oggi – a distanza di un anno – ci troviamo in una situazione forse ancora più faticosa.
Certo, quest’anno possiamo partecipare (con tutte le cautele del caso) ai riti pasquali: questa è già per i credenti una fonte di gratitudine inesauribile, perché la celebrazione cristiana è ben più che un ricordo sentimentale, dal momento che è memoria viva di una Presenza attuale e reale; ma non possiamo negare che, nello stesso tempo, viviamo tutti la fatica di un anno che ha visto scatenarsi giorno dopo giorno una ridda di interpretazioni contrastanti e confliggenti della realtà.
Abbiamo così assistito non solo al raggiungimento di livelli insopportabili nella sguaiatezza dello scontro giornalistico e mediatico, ma anche ad un immiserimento della parola e del colloquio più quotidiani: in famiglia, con gli amici, perfino tra estranei la presenza del complottismo, della sistematica demolizione di ogni posizione che invochi l’uso della ragione e della solidarietà sociale nella ricerca di un bene comune (che mai può essere disgiunto da una mutua e previa stima per l’interlocutore e dal riconoscimento di una possibile reciproca volontà di cura e di sincera preoccupazione per la sorte di tutti) ha causato uno scadimento sconfortante – non di rado degradato in episodi di violenza verbale o fisica – della relazione tra le persone.
Oltre a questo, se già prima della pandemia ci eravamo abituati a parlare di “post-verità”, e di una ormai acclarata “liquidità” delle opinioni pubblicamente espresse, ora questi termini sono diventati non solo esperienza comune, ma una vera e propria malattia – essa pure pandemica! – che sta facendo mutare mostruosamente la visione della realtà. Nemmeno ci si ferma più, ormai, a dare per inevitabile il conflitto delle opinioni, riconosciute come legittimamente diverse: mentre alcuni vorrebbero far scomparire perfino la possibilità di produrre affermazioni che possano anche solo infastidire per la diversità dal mainstream informativo, altrettanto diffusa e forse ancor più pervasiva nel provocare l’alienazione di chi la pratica appare l’abitudine – sovente rivendicata con acrimonia – a spezzettare la realtà in piccoli “fortini” difesi con il coltello tra i denti, nei quali stare solo con pochi e scelti compagni consenzienti, considerando gli altri sempre con diffidenza quali possibili nemici e insidiatori della propria inossidabile convinzione, che quando è rivendicata come verità diventa sempre una “verità-contro-qualcuno”, una “verità-clava” da usare all’occorrenza e da rinforzare sempre più nella coltivazione di sentimenti di rivalsa e/o (ma questo è più difficile che venga riconosciuto) di paura nei confronti di chi sta oltre il nostro steccato. Ne è triste prova la proliferazione di gruppi chiusi a livello politico, sociale, perfino ecclesiale, che sistematicamente operano.
È questa situazione – che spero di non aver rappresentato a tinte troppo fosche – che mi ha fatto rileggere con stupore e rinnovata attenzione il passo evangelico citato all’inizio di questo articolo. Anche a proposito della risurrezione di Gesù, infatti, vi fu subito chi – sapendo di mentire – si adoperò a diffondere opinioni che mascherassero dietro vere e proprie “fake news” l’irrompere nella storia di qualcosa di inaudito e rivoluzionario. E se non ci stupisce leggere che furono i mandanti dell’uccisione di Gesù a promuovere questa “cortina fumogena” informativa, dobbiamo ricordare che perfino gli apostoli, all’inizio, reputarono i racconti delle donne che erano state al sepolcro e avevano avuto l’apparizione del Risorto “vaneggiamenti” (Lc 24,11).
A vincere l’incredulità degli apostoli e di molti cittadini di Gerusalemme – gli stessi destinatari delle false notizie propagandate dai soldati – non furono discussioni e analisi relative alla possibilità, alla liceità, alla correttezza della risurrezione, ma – come affermerà più tardi Pietro – l’iniziativa stessa del Mistero, che “volle che [Cristo risorto] apparisse non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio… e ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio” (At 10,40-42).
Non ci deve sfuggire questo passaggio: la resurrezione di Cristo non si affermò come fatto per l’evidenza pubblica di una sua apparizione nel cortile del Tempio o nel palazzo del Sinedrio. Vi fu invece – come testimonia Paolo in 1Cor 15,5-8 – una serie di manifestazioni a “testimoni prescelti da Dio”, tra cui in primis Pietro e i Dodici. Ed è a partire da costoro che appare nella storia un comportamento umano capace di dare testimonianza della resurrezione di Cristo, al di là di ogni impostura e tentativo di disinformazione.
Possiamo guardare più da vicino il caso di Pietro, particolarmente emblematico. Egli non era stato privo di dubbi la mattina di Pasqua, e fino alla triplice conferma della sua vocazione da parte di Gesù sul lago di Galilea aveva convissuto con l’ombra del suo rinnegamento nel cortile del sommo sacerdote, la notte dell’arresto. Ma dal giorno di Pentecoste lo troviamo capace di una testimonianza in parole ed opere che lo configura sempre di più al Maestro. Qual è il cambiamento che avviene in lui? Non è solo una “iniezione di coraggio”: lo Spirito opera in lui un mutamento profondo di sguardo e di azione, che ci viene mostrato al capitolo 3 degli Atti. Salendo al tempio a pregare, Pietro e Giovanni si imbatterono in un mendicante storpio, che chiese loro l’elemosina. Pietro “fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: ‘Guarda verso di noi’. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: ‘Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!’. E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo… balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio”. La guarigione provocò scalpore, e Pietro riaffermò sia davanti alla folla, sia poi davanti al Sinedrio tutto, che la guarigione era avvenuta “nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti”.
Non possiamo non paragonare questo episodio a quanto era avvenuto alcuni mesi prima sempre nel tempio, in circostanze analoghe: allora Gesù si era imbattuto in un uomo cieco dalla nascita, e proprio tra i suoi discepoli era nata la domanda se la sua cecità fosse dovuta a un peccato commesso da lui stesso, mentre era nel grembo materno, o dai suoi genitori. In quella circostanza, tra i discepoli aveva prevalso un atteggiamento di curiosità, non privo di un certo “compiacimento teologico”, tutto volto a stabilire quali siano le regole imposte da Dio, ma incapace di guardare alla persona che avevano davanti. Ma Gesù aveva recisamente stroncato quella discussione – potenzialmente interminabile – come aveva già fatto più volte con i sadducei, con gli scribi e i farisei, con la stessa Samaritana; ed aveva mostrato che il suo sguardo era interessato unicamente alla storia e alla vocazione di quel cieco, affinché “si manifestassero in lui le opere di Dio” (cf. Gv 9,1-3).
Questo stesso sguardo, attento alle persone e alla loro chiamata alla salvezza che è quanto Dio desidera, è ciò che Pietro ha imparato da Cristo, e che lo rende testimone credibile della Resurrezione. Senza fare alcuno sconto alla verità – nell’episodio dello storpio e nel discorso di Pentecoste Pietro non avrà timore di ricordare ai suoi interlocutori la necessità di pentirsi per aver causato la condanna di Cristo –, il cuore dell’annuncio è tuttavia sempre, costantemente, quello che proclama la possibilità della salvezza; anzi: l’affermazione che la promessa fatta ai padri non è mai stata revocata, e che Dio stesso “dopo aver resuscitato il suo servo [Gesù] l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3,26).
Ecco ciò che salva dalla ridda delle opinioni e dal proliferare delle mistificazioni e del conseguente cinismo scettico: una testimonianza che nasce dall’esperienza della misericordia, e che si lascia plasmare fino alla condivisione del desiderio di Cristo di risorgere per riproporsi di nuovo e continuamente anche a quelli che fino ad ora non l’hanno (ri)conosciuto. Da qui nasce uno sguardo che ricostruisce una realtà unitaria: fatta, cioè, di uomini e donne per i quali Cristo non solo è morto, ma anche è risorto: Dio, infatti, “l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3,26).
Questa cura amorevole (Pietro, dicono gli Atti, “scongiurava” i suoi interlocutori perché accogliessero la salvezza di Cristo), scevra da ogni rivendicazione, pretesa o affermazione di sé, è il segno più vero che contraddistingue quanti hanno visto il Risorto e sono stati da Lui raggiunti e mandati a condividere il dono ricevuto. E tra loro siamo anche noi. Che ci auguriamo di vivere così la Pasqua di Resurrezione in questo secondo anno di pandemia.
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