Diciamocelo. C’è anche un po’ di retorica in alcuni dei messaggi che girano in questi giorni segnati dal coronavirus. Sì è vero, forse (!), insieme ce la faremo; sì, è bello riscoprire lo stare in famiglia, anche se, e lo ha ricordato il Papa una di queste mattine, “bisogna trovare il modo di comunicare bene, di costruire rapporti di amore nella famiglia”, perché non è scontato che sia così, questi giorni meno che mai.



C’è qualcosa però che non suona mai retorico. È la commozione davanti al dolore, lo struggimento impotente di fronte a tutte quelle persone morte nella solitudine, la dedizione dei sanitari che sono in prima linea e che rischiando danno tutto per il bene degli altri. Questi sentimenti, quando accade di imbattersi in essi attraverso la testimonianza di qualcuno che li vive e li ripropone, fanno riassaporare la dignità del nostro essere persone, non stracci di umanità sbattuti in una pestilenza e condannati al nulla, ma creature, presenti, volute, amate! Che si tratti di persone sane, di persone ammalate, di persone morte. E questa dignità la percepisci perché qualcuno ne è stato commosso.



Un esempio. Quello di un sindaco, quello di Rimini, che dopo avere dato la disponibilità ad accogliere le bare dei morti di Bergamo, se ne esce con una riflessione che va oltre quella disponibilità: “Onoriamo i nostri morti. Ci sono città più colpite della nostra. Anche noi ospitiamo quelle salme, ma non dobbiamo perdere l’orizzonte. E l’orizzonte è una comunità che si rinsalda e si ritrova, una comunità di nomi e cognomi, in cui il conteggio quotidiano delle vittime non cancella il bisogno di conoscere le storie di quelle persone, di ricordarle e onorarle quando finalmente tornerà il tempo”. Una vibrazione commossa non dovuta, gratuita, un sussulto davanti all’umano! Mai come in questi tempi riemerge il bisogno di “umano”.



Proprio di fronte al sacrificio di tanti, di quelli che sono in prima linea, ma anche di coloro, e sono tantissimi, che sono in casa con anziani, disabili, ammalati mi è balzato con evidenza davanti agli occhi un fattore di questo umano. Don Giussani lo definiva come “l’esigenza di interessarci agli altri”. “Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza”.

In me c’è un test che mi fa dire che questo amore agli altri è veramente una riscossa dell’umano. Interessarmi agli altri mi toglie dalla paura, ma non perché mi distrae o mi occupa il tempo, ma perché rimette in ordine l’umano. Rimette in moto le domande vere, quelle che la paura annebbia, “cosa desidero? Di cosa ho bisogno per vivere?” e quando mi dedico a queste domande rinasco.

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