Ha destato grande interesse la notizia riportata da Il Resto del Carlino, e poi rilanciata da diversi quotidiani nazionali (oltre che dal Sussidiario.net:), che il Tribunale di Macerata ha accolto la richiesta di 300 infermieri e operatori sociosanitari dell’Asur Marche di pagamento della retribuzione corrispondente ai tempi di vestizione e svestizione della divisa di lavoro. I lavoratori avevano chiesto che il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa fosse considerato tempo di lavoro (quantificato in 20 minuti per turno) e la Società aveva opposto che la vestizione degli abiti di lavoro costituiva una semplice attività preparatoria e strumentale all’attività lavorativa e che, pertanto, doveva ritenersi già remunerata con la retribuzione ordinaria. Il Tribunale ha accolto la richiesta dei lavoratori, stabilendo che le operazioni di vestizione e svestizione, in quanto imposte dal datore di lavoro, rientrano “nel tempo di lavoro effettivo” e pertanto devono essere retribuite.



Al di là del clamore mediatico che ha suscitato, la decisione del Tribunale di Macerata non può essere certo considerata “rivoluzionaria”. La conclusione alla quale è pervenuto il Tribunale affonda infatti le proprie radici nei principi enunciati già da qualche anno dalla Corte di Cassazione. Con specifico riferimento al caso degli infermieri, solo qualche mese fa la Suprema Corte aveva ribadito il principio, precedentemente enunciato con sentenza n. 12935 del 2018 e con sentenza n. 27799 del 2017, secondo cui “in materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza e di igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto”.



Secondo la Cassazione, il tempo necessario a indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro, e va dunque retribuito, se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro: in buona sostanza, il tempo tuta va retribuito se è il datore di lavoro a imporre ai propri lavoratori quando e dove effettuare l’operazione di vestizione o di svestizione della divisa aziendale (c.d. eterodirezione). La Corte di Cassazione ha precisato che l’eterodirezione “può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa”, ma può anche “risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi di quelli utilizzati o utilizzabili, secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento“: ciò significa che, anche in assenza di un’esplicita indicazione datoriale, se la divisa deve comunque considerarsi obbligatoria, ad esempio per ragioni igieniche o sanitarie e non può ragionevolmente essere indossata fuori dal luogo di lavoro, il tempo tuta deve essere retribuito (c.d. eterodirezione implicita).



I principi enunciati dalla Cassazione hanno trovato applicazione nei confronti non soltanto degli infermieri, ma anche di altre categorie di lavoratori: dagli addetti dei supermercati ai metalmeccanici, dagli addetti mensa agli operai edili, dagli operatori sanitari delle case di riposo agli operai del trasporto pubblico. E gli esiti sono stati differenti a seconda dei casi.

Ad esempio, con sentenza n. 9871 del 9.4.2019 la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte di Appello di Firenze con la quale il giudice di merito aveva statuito sulla domanda di alcuni operai di officina di un’azienda di trasporto pubblico, e aveva affermato che il tempo impiegato per effettuare la vestizione della divisa da lavoro (che comprendeva anche alcuni dispositivi di protezione individuale) non doveva essere retribuito in quanto nel corso del giudizio di merito era emerso che “gli indumenti potevano essere indossati e dismessi anche fuori dal luogo di lavoro e quindi in ambito sottratto alla eterodirezione”.

Un altro caso è quello esaminato dalla sentenza della Cassazione n. 505 del 11.1.2019. Nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato dai lavoratori (che svolgevano mansioni di saldo-carpentiere per una nota azienda di costruzioni navali), la Corte ha osservato che i lavoratori non hanno diritto alla remunerazione per il tempo tuta se non provano “di essere vincolati ad utilizzare gli spogliatoi aziendali e ad anticipare il proprio arrivo nell’ambiente di lavoro” e se possono “liberamente assolvere a tali attività preparatorie anche presso le rispettive abitazioni”. In quel caso la Corte ha rilevato che “neppure era stata dedotta la circostanza che l’utilizzo delle tute da lavoro, delle scarpe e dei dispositivi di sicurezza al di fuori dell’ambiente di lavoro non fosse consono o adeguato secondo un criterio di normalità sociale”. Pertanto doveva confermarsi la statuizione del giudice di merito con la quale era stata respinta la domanda dei lavoratori di vedersi retribuito il tempo tuta.

Un caso ulteriore è quello esaminato dalla sentenza n. 7738 del 28.3.2018, con la quale la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma che, con riferimento ad alcuni addetti al servizio mensa, aveva ritenuto che “l’attività di vestizione, preparatoria della prestazione, doveva nel caso di specie, considerarsi eterodiretta in quanto prescritta dal datore di lavoro sia pure per ragioni di igiene, in conformità alle normative di settore”, e pertanto andava retribuita.

C’è poi il caso esaminato dalla sentenza n. 1352 del 26.1.2016, con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso presentato da alcuni addetti all’attività di assistenza presso una residenza per anziani, cassando una sentenza della Corte d’Appello di Milano. Quest’ultima aveva rigettato il ricorso “in considerazione del fatto che i lavoratori non svolgono mansioni infermieristiche né lavorano in strutture ospedaliere, sicché è sufficiente che si presentino con una divisa pulita, anche se indossata prima di muoversi da casa“. La Suprema Corte non è stata di questo avviso e, richiamando il proprio orientamento in materia, ha affermato che, per valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, il giudice del merito deve valutare “il grado di igiene richiesto per l’espletamento della prestazione e se esso possa essere realmente garantito dal tragitto che i lavoratori devono compiere prima di entrare nel luogo di lavoro“.

I predetti principi sono stati recepiti anche dalle Corti di merito. Ad esempio, con sentenza n. 24 del 26.2.2019, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto tempo di lavoro quello impiegato per la vestizione della divisa aziendale da un addetto al reparto macelleria di una nota catena della grande distribuzione; in quel caso, la Corte ha reputato irrilevante il fatto che il regolamento aziendale disponesse espressamente la facoltà per il dipendente di “scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa“, in quanto l’eterodirezione risultava “implicitamente dalla natura degli indumenti“, la divisa costituendo un “elemento di protezione da agenti esterni a tutela dell’igiene della persona del lavoratore e degli stessi prodotti maneggiati” e pertanto non era “ragionevolmente ipotizzabile né esigibile che tali abiti” fossero “indossati al di fuori del luogo di lavoro” (negli stessi termini anche la sentenza n. 3903 del 31 ottobre 2018 della Corte d’Appello di Roma).

Dunque, la giurisprudenza di legittimità e di merito hanno raggiunto un orientamento sostanzialmente univoco in materia di tempo tuta. Il che, peraltro, non esime il giudice dalla necessità di accertare caso per caso, sulla base dei principi enunciati dalla Cassazione, la sussistenza in concreto del diritto del lavoratore alla retribuzione corrispondente al tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa.