Le anticipazioni d’estate del Rapporto Svimez, un appuntamento ormai fisso e atteso, confermano quello che associazioni rappresentative e centri studi affermano in maniera quasi concorde:

– le retribuzioni dei lavoratori italiani si mantengono basse;

– tre milioni di dipendenti guadagnano meno di 9 euro l’ora;



– un milione di costoro vive nel Mezzogiorno rappresentando un quarto della forza lavoro;

– diminuisce pertanto il potere d’acquisto nel Pese e in particolare al Sud;

– nonostante questo, le previsioni di crescita della ricchezza (Pil) si mantengono alte: +1,1 per cento nel 2023 (1,2 per cento al Centro-Nord, +0,9 per cento nel Meridione);



– la ragione sta nella cauta fiducia nella capacità di spesa dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza;

– l’andamento potrebbe essere ancora più favorevole se il programma europeo avesse successo;

– l’inflazione cala ma non al punto di indurre la Banca centrale europea (Bce) a fermare il rialzo dei tassi d’interesse;

– per imprese e famiglie sale il costo del denaro e si allarga di conseguenza l’area della sofferenza;

– si rischia di andare in recessione annullando gli effetti benefici del Pnrr.

Tutto questo induce operatori e osservatori a dibattere intorno ai rimedi per sconfiggere i diversi mali. In particolare, se sia utile o meno introdurre un salario minimo per legge (battaglia della sinistra) e se si debba avere più paura della recessione o dell’inflazione.



Nel primo caso – salario minimo – la scorciatoia rischia di produrre più danni di quanti non sia in grado di ripararne e per due ordini di motivi: di metodo e di merito. Nel metodo, non appare opportuno delegare al Governo la soluzione di problemi che dovrebbero essere affrontati dal mercato e quindi dalle parti sociali. Piuttosto, torna a galla l’antica questione della capacità rappresentativa delle organizzazioni firmatarie di accordi sindacali già discussa e risolta nel 2018 con il Patto della Fabbrica che la sopravveniente pandemia ha fatto dimenticare. Basta riesumare quel testo, fortemente voluto dall’allora Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, per trovare molto delle risposte alle domande di oggi.

Nel merito – parliamo sempre di salario minimo -, una volta fissato normativamente il livello niente e nessuno potrebbe impedire a un piccolo imprenditore di sconfessare l’accordo di categoria qualora più oneroso e applicare quello più favorevole con l’inevitabile conseguenza di un livellamento al ribasso.

Sotto questi chiari di luna e di fronte alle difficoltà di applicazione di un piano d’investimenti monstre come quello del Pnrr – per giunta con i vincoli dell’impatto in grado di produrre nella società e del rispetto dei tempi di attuazione – rendere più costoso il denaro scoraggiando imprese e famiglie a investire e spendere si presenta come una mossa perlomeno azzardata.

Non a caso, perfino un uomo prudente per carattere e mestiere come il Governatore (per quanto uscente) della Banca d’Italia Ignazio Visco invita a non stroncare la fragile ripresa in atto accettando di fare i conti con la più tollerabile insidia dei prezzi alti. Certo, non si tratta di flirtare con l’inflazione (una ferita dolorosissima per ogni banchiere centrale che si rispetti), ma di scegliere quale male attaccare per primo. In questo caso, sembra più utile sconfiggere la possibile recessione (ed evitare un peggioramento nei posti di lavoro e i redditi, già molto compromessi) che attaccare la tassa occulta dell’innalzamento dei prezzi.

Una battaglia che andrà combattuta, e senza quartiere, appena le condizioni generali lo consentiranno.

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