Il ritorno delle politiche di potenza adottate dalle nazioni che aspirano a giocare la partita geopolitica da protagonisti, ha innescato una riconfigurazione della globalizzazione su più livelli. Un cambiamento che al momento si misura soprattutto nei contesti in cui la competizione geopolitica è più accesa.

Non è un caso che gli analisti abbiano concentrato la loro attenzione sui campi in cui si registrano le tensioni maggiori. Le guerre valutarie e commerciali, il ritorno di vecchie potenze che aspirano al rango di grandi attori regionali e la sfida per raggiungere la supremazia tecnologica contribuiscono a ridisegnare i confini spaziali e immateriali del mondo e alimentano la radicale incertezza di questa fase. C’è però un campo che per adesso rimane sullo sfondo delle principali riflessioni, ma che può tuttavia aiutarci a capire lo stato di salute della globalizzazione.



Ci riferiamo a quello che riguarda i flussi culturali globali, studiati dall’antropologo Arjun Appadurai, che ha descritto la globalizzazione attraverso l’analisi dei flussi comunicativi e mediatici che l’attraversano. Una chiave interpretativa utile per decifrare la forma che sta prendendo l’immaginario collettivo della società contemporanea. Una dimensione all’interno della quale i flussi non si muovono in modo univoco e che possono produrre effetti disgiunti e imprevedibili. Una prospettiva d’analisi che ci fa capire quanto sia stato superficiale il modo in cui generalmente è stata descritta la globalizzazione, per il quale essa coincide con una generale americanizzazione dei gusti e dei costumi.



La fase attuale sembra confermare la discontinuità e reversibilità dei processi culturali, restituendoci l’immagine di un mondo difficilmente riconducibile all’andamento descritto dal Big Mac Index o dal KOF Globalization Index, in cui anche il soft power americano sembra doversi adattare a una realtà mutata.

Il caso del remake Disney del film di animazione “Mulan”, che ha tenuto banco per qualche giorno a inizio mese, è un caso emblematico di quanto ormai sia difficile per l’industria culturale hollywoodiana offrire un prodotto che sia universalmente accolto con lo stesso entusiasmo. Le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film – relative alla dichiarazione della protagonista Liu Yifei, che ha espresso apertamente il suo sostegno alle forze di polizia che ad Hong Kong sono alle prese con la repressione delle proteste e il ringraziamento espresso nei titoli di coda a sei agenzie governative presenti nello Xinjiang , di cui una è sospettata di gestire dei campi in cui avviene la “rieducazione” della popolazione uigura di religione musulmana – hanno palesato la necessità di Hollywood di salvaguardare i propri interessi economici che, in tempi di pandemia, hanno nella Cina il mercato principale in una fase di guerre commerciali e culturali.



Mentre in America sono in molti a chiedersi se Hollywood si sia piegata all’influenza cinese, si moltiplicano i casi di film che hanno dovuto adattarsi alle esigenze di Pechino. Da quando nel film “2012” il mondo viene salvato dal governo cinese e in “Gravity” Sandra Bullock riesce a sopravvivere raggiungendo una stazione spaziale cinese è evidente il tentativo di Hollywood di compiacere il pubblico cinese. Un tentativo che oggettivamente stride con il palese revanscismo espresso da film prodotti in Cina o ispirati espressamente dalla storia cinese.

Se è vero che in questi film è assente la compiaciuta aggressività testosteronica di un film dell’era reaganiana, fa un certo effetto vedere film indirizzati al grande pubblico in cui la stella del cinema cinese Donnie Yen, interpretando Ip Man, il mito delle arti marziali cinesi, sfida per le strade di Hong Kong i “diavoli stranieri” che hanno sottomesso il popolo cinese.

Da tempo Hollywood sembra aver rinunciato a farsi portatrice su scala globale dell’American way of life, e addirittura sembra destinata a perdere la sua centralità nell’industria cinematografia, come sostiene in un articolo recente il Wall Street Journal, in cui si leggeva che quella cinese è destinata a diventare in poco tempo la prima al mondo. Una situazione win-win per la Cina, in cui Hollywood per accedere al mercato cinese deve ricalibrare i propri prodotti – a costo di operare una forma di ostracismo verso registi e attori come Richard Gere impegnati a favore di cause reputate anticinesi come quella del Tibet – mentre l’industria cinese continua a crescere giovandosi della chiusura del proprio mercato a prodotti ritenuti non conformi alla censura.

Se a queste considerazioni aggiungiamo la stretta connessione fra Hollywood e i colossi della tecnologia e della finanza, come testimoniano Apple, proprietaria di Pixar, e i maggiori azionisti di Disney, fra i quali troviamo quasi tutti i grandi nomi di Wall Street, ci rendiamo conto della portata strategica della partita in gioco, anche se la posizione di chi è pronto a scommettere sulla fine dell’egemonia di Hollywood e sulla affermazione di quella cinese risulta alquanto semplicistica.

A ben vedere, stiamo assistendo a una riconfigurazione dei flussi culturali che in questa fase di transizione si irradiano da più centri d’influenza. Una situazione che ci fa ripensare la globalizzazione così come l’abbiamo immaginata, che in realtà non è mai stata di fatto integralmente ed esclusivamente “solo” americana, quanto, piuttosto, il risultato di un’intensa integrazione e interrelazione fra diverse realtà che avveniva su “canali” il cui funzionamento era garantito e controllato dall’egemonia americana.

A fronte di queste considerazioni converrebbe dare più attenzione ai processi culturali, che in questa fase continuano a sostenere i processi di globalizzazione, perché una volta che la dimensione immateriale dei flussi che connette strettamente cultura, finanza e tecnologia diventerà il luogo concreto e materiale  di contesa, ci sarà da scegliere fra un modo dominato da una sola visione del mondo e uno in cui coesisteranno più culture in grado di comunicare fra loro. Mentre al momento ci troviamo in un mondo troppo grande per un’unica Hollywood e al contempo troppo piccolo per due contendenti con le stesse aspettative.