Dopo quello che è successo in Umbria nei giorni scorsi per Nicola Zingaretti sembra finita la luna di miele. Come sappiamo, il 3 marzo – appena 75 giorni fa – il popolo di sinistra gli ha tributato il meritato trionfo, premiando il coraggio con cui ha raccolto la sfida al renzismo mai domo, ma soprattutto sostenendo la determinazione con cui egli vuole contrastare l’inesorabile declino del Pd. In poche settimane Zingaretti ha dovuto rimettere in piedi un partito atrofizzato, riorganizzare le liste per le europee aprendole a forze nuove, ed è riuscito a schierare in campo da Pisapia a Calenda, da Leu ai rappresentanti di Macron in Italia, dal magistrato Franco Roberti a intellettuali del calibro di Angelo Bolaffi. Tutto sommato un miracolo. Anche per questo non sono da disprezzare i segnali di ripresa e, nonostante la somma delle forze di maggioranza nei sondaggi non scenda mai  sotto il 60%, il Pd è risalito stabilmente sopra il 20% dei consensi.



Il semplice fatto che appare possibile sorpassare il Movimento 5 Stelle in grande difficoltà dovrebbe indurre anche i più critici ad apprezzare il lavoro fatto in così poco tempo dal nuovo segretario del Pd. Ecco perché la vicenda esplosa in queste ore in Umbria intorno alle dimissioni date, ritirate e poi ridate della presidente Catiuscia Marini sono da considerare un pericoloso segnale che può rendere inutili tutti gli sforzi fatti finora.



Zingaretti ha chiaramente compreso la portata della vicenda e per la prima volta ha smesso il sorriso da bonaccione e ha pesato le parole. Diciamo le cose come stanno: la signora Marini – giunta ai vertici della regione rossa grazie al ruolo fondamentale di assistente svolto per anni nello staff della Presidente precedente – ha ritenuto di poter attaccare direttamente il segretario del suo partito, prima accusandolo di sessismo e di scarsa imparzialità dovuta al fatto di appartenere a una corrente a lui avversa, poi addirittura lo ha tacciato di insensibilità democratica, avendola spinta ad aprire una crisi extra-istituzionale, perché lo ha visto debole.



Ricoprendosi di ridicolo, la Marini ha prima preteso che il Consiglio regionale respingesse le sue dimissioni (la qualcosa è stata ottenuta grazie al suo voto determinante) e poi, inscenando nel mezzo della vicenda un veloce ricovero per un improvviso malore, le ha ripresentate. In questo modo bisogna ripetere la procedura e si è obbligati a sottoporle nuovamente al voto del Consiglio. Al di là della vicenda giudiziaria che coinvolge lei, un pezzo della sua giunta e i vertici della sanità pubblica locale in una storia di concorsi  manipolati e di vera e propria persecuzione nei confronti di alcuni loro oppositori, la storia umbra rivela uno spaccato assai importante della realtà del Pd ereditato da Zingaretti.

La pressoché totale scomparsa del popolo delle sezioni e delle Feste dell’Unità ha di fatto creato un partito che ha negli amministratori locali il loro esclusivo punto di forza. Grazie a un continuo travaso di voti e di tessere a opera di chi è più bravo a raccogliere consensi elettorali sul territorio, è stato sempre più facile esercitare il controllo del partito da parte di chi ne dovrebbe essere controllato, in un classico gioco dove il cane si morde la coda. Tra gli amministratori locali che svolgono questo “lavoro” con un certo impegno ci sono proprio i consiglieri regionali, essendo essi espressione ancora di un voto di preferenza raccolto in vasti territori. Sono essi che in stragrande maggioranza – salvo forse nel Lazio – hanno cercato di opporsi all’elezione di Zingaretti e ancora oggi cercano di sabotare il lavoro di ricostruzione del partito. Se non era per un vasto voto di opinione, Zingaretti non avrebbe mai vinto.

Non a caso è intervenuto in difesa della Marini l’ex presidente del Pd Matteo Orfini. Ben noto alle cronache per aver raso al suolo il Pd romano e consegnato la città alla giunta Raggi, Orfini non si lascia sfuggire l’occasione e avverte tutti: subito dopo il voto l’opposizione interna tornerà a farsi sentire.

Il tentativo di ribellione in Umbria va governato dal nuovo gruppo dirigente con il pugno di ferro, se non si vuole che si estenda a macchia d’olio. Anche perché la questione “giudiziaria” emersa in questo caso, e cioè una lettura più restrittiva del codice di comportamento del Pd rispetto all’approccio garantista imposto da Renzi in passato, rischia, a pochi mesi dal rinnovo di numerosi consigli regionali, tra cui Campania, Puglia, Emilia-Romagna, Toscana, ancora governati da uomini Pd, di eliminarne dalla corsa alcuni pezzi da novanta.

La rivolta degli amministratori locali fa il paio con un’altro duro scontro in atto proprio nella stessa campagna elettorale europea e riguarda la battaglia per le preferenze. In ogni circoscrizione gli oppositori di Zingaretti, soprattutto quelli di matrice renziana-democristiana, hanno deciso di misurasi intorno ad alcune candidature di bandiera. Eclatante il caso della coppia Ferrandino-Picierno nella circoscrizione sud: questi due candidati stanno facendo campagna a sé e non nascondono di lavorare apertamente per la non elezione del capolista, l’ex procuratore antimafia Franco Roberti, scelto personalmente da Zingaretti. La battaglia è così aspra che ha spinto un uomo politico della prima repubblica come Paolo Cirino Pomicino a scendere in campo, e a dichiarare il suo voto al Pd e al binomio in questione, annunciando sornione addirittura l’ipotesi di iscriversi al partito. Colpisce come Zingaretti non abbia subito capito l’insidia nascosta in un innocuo caffè preso con l’ex ministro Dc. Il quale ovviamente ha subito venduto la cosa ai giornali, facendo fare alla vice-segretaria Paola De Michele, che aveva fatto da tramite, la figura della cretina.

Il voto del Pd del 26 maggio avrà necessariamente una doppia lettura. Da un lato il risultato complessivo che premierà sicuramente il lavoro di Zingaretti e la svolta politica da egli perseguita. Ma poi il voto al suo interno andrà letto con attenzione sia per quanto riguarda i voti di preferenze e l’ordine di arrivo degli eletti alle europee, sia facendo attenzione al voto amministrativo locale, dove in più di un caso il Pd si è presentato spaccato verticalmente, come nei casi di Ferrara e di Avellino. In particolare il voto amministrativo avrà una coda interessante con i ballottaggi del 9 giugno. Solo in quell’occasione capiremo veramente quanto Zingaretti è riuscito a ricollocare il Pd in un campo più largo di centrosinistra. Ma capiremo qualcosa di molto di più sul futuro del nuovo gruppo dirigente del Pd. Sapremo quante singole battaglie il segretario è stato in grado vincere. E avremo la fotografia esatta di quante sono le aree del Paese dove si sta organizzando la resistenza per opporsi con ogni mezzo alla svolta del 4 marzo.