“Ho chiesto di vederli, non li trovo”. In conferenza stampa, Draghi ha smentito che esistessero “messaggi” nei quali chiedeva a Beppe Grillo di sollevare Conte, perché “inadeguato”, dalla leadership dei 5 Stelle. Il caso politico durato per tutta la giornata di mercoledì 29 giugno, dall’uscita dell’intervista di Domenico De Masi sul Fatto Quotidiano fino alla smentita serale di Palazzo Chigi, sarebbe dunque archiviato. Quei messaggi non ci sono. La sfida di Draghi è perentoria e l’onere della prova ricade sui retroscenisti, che hanno subito riscritto una probabile versione dei fatti basandola sulle battute telefoniche tra Draghi e Grillo più che su sms veri e propri.



Ma così va perduto il sale politico dell’intera vicenda, che mostra invece un Draghi sempre più preoccupato, nonostante l’understatement e la sicurezza del banchiere centrale (chiedere a Madame Lagarde). Perché se c’è qualcosa che il presidente del Consiglio sta imparando a proprie spese, è che governare un Paese come l’Italia è molto più complesso che guidare la Bce.



E la conferma viene dalla fotografia che lo ritrae al telefono seduto su una panchina del Prado, in disparte, come un qualsiasi rispettabilissimo signore in giacca e cravatta preoccupato che qualcosa di importante, e di grave, stia accadendo da tutt’altra parte, fuori del suo controllo. Si gioca tutto in una ventina di minuti. Per tutto il giorno – quello del vertice Nato, mentre in Italia Conte rilascia dichiarazioni pesantissime – Draghi non ci pensa proprio a smentire le frasi che gli sono attribuite. Perché dovrebbe farlo, se ha detto quello che pensa e lo ha ribadito al telefono con l’Elevato?



Poi qualcosa cambia. “Draghi, mai chiesto a Grillo di rimuovere Conte”, scrive l’Ansa alle 20:23, sotto l’occhio vigile del Quirinale. In 20 minuti si apprende che Draghi lascia il vertice Nato per fare rientro a Roma e dedicarsi “al Consiglio dei ministri convocato per esaminare, tra l’altro, i provvedimenti in materia di caro bollette e assestamento di bilancio”. Sono le 20:40. Mattarella ha convinto l’Impolitico di palazzo Chigi che con una maggioranza così traballante, anche se i 5 Stelle maturano lo stipendio a ottobre, è opportuno essere prudenti. E smentire. Anzi, meglio rientrare subito. A tranquillizzare Conte avrebbe pensato il capo dello Stato, come infatti è puntualmente avvenuto: nel corso dell’incontro, scrive l’Ansa alle 21:34, Conte “non ha parlato con il capo dello Stato di uscite dal governo da parte dei 5 stelle”. Fine del caso?

Tutt’altro. L’attività di governo mostra la corda, ieri Letta ha avvisato l’ex compagno del campo largo (“con appoggio esterno esperienza finita”) e rilanciato l’estensione dei diritti. Prima il ddl Zan, ora lo ius scholae, che piace pochissimo a Matteo Salvini. Non perché il leader della Lega sia contrario alla scolarizzazione degli studenti extracomunitari, ma perché, tra fronde interne e risultati delle comunali, vuole dettare in fretta al governo altre priorità: lavoro, fisco e – guarda caso – bollette.

A riprova delle tensioni crescenti tra Pd e Lega, tutti i lavori parlamentari sono sospesi, aggiornati a settimana prossima. Hanno ragione Mattarella e Draghi a guardare con apprensione il quadro politico: non è facile immaginare che l’esecutivo di unità nazionale possa fare da camera di compensazione a mal di pancia, fibrillazioni, calcoli elettorali, disgregazioni politiche (quella di M5s) ancora per 8-9 mesi. Ma c’è una bussola che potrebbe essere d’aiuto.

In alcuni sondaggi riservati è stato chiesto agli elettori dei partiti se l’esperienza di governo debba finire. Le percentuali si aggirano intorno al 40% per gli elettori della Lega e sfiorano il 47% per quelli del Movimento 5 Stelle. Ma c’è anche un 41% di elettori Pd che pensa che Salvini “debba” uscire dall’esecutivo. Le parti di buoni e cattivi sono dunque assegnate. Forse è solo questione di tempo. Ucraina permettendo.

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