La situazione si sblocca a metà giornata. Mario Draghi può cominciare a immaginare di arrivare fino in fondo a un tentativo partito senza rete, senza una maggioranza certa, poggiato solo sul prestigio immenso dell’uomo che ha salvato l’euro unito a quello indiscutibile del Capo dello Stato.
Il segnale lo dà Giuseppe Conte con quella sua teatrale uscita da Palazzo Chigi per assicurare da una parte di non essere ostacolo al suo probabile successore, e dall’altra la sua candidatura a capo del Movimento 5 Stelle e insieme federatore dell’alleanza giallorossa. Una mossa che ha l’effetto di trascinare i grillini, volenti o nolenti, nell’orbita di Draghi.
In parallelo, negli stessi minuti, Silvio Berlusconi rompe gli indugi, e spezza la precaria tregua nel centrodestra: annuncia che Forza Italia andrà da sola alle consultazioni, e che sarà lui stesso a guidare la delegazione azzurra. Ricordare che fu il suo governo a indicarlo al vertice della Banca centrale europea è il più netto degli endorsement immaginabili.
Quella che sembra profilarsi è quindi una “maggioranza Ursula”, cioè la stessa che a Strasburgo sostenne la presidente della Commissione europea: Pd, Forza Italia e pentastellati, nonostante le diffidenze reciproche. Ma forse si può andare più in là, allargando l’area di appoggio a Draghi a Leu e Italia viva (scontato) e alla Lega (meno scontato).
Per Forza Italia la presenza del Carroccio sarebbe una garanzia di non vedere compromessa la prospettiva dell’alleanza di centrodestra. A Salvini serve però tempo per compiere un’operazione politica davvero difficile, ma obbligata per potere ripulire la propria immagine dal sovranismo spinto e accreditarsi in Europa come credibile e affidabile forza di governo. A pressarlo le categorie produttive del Nord, ma anche l’ala governista e moderata del partito, Zaia in testa. Il suo numero due Giorgetti, forte di un consolidato rapporto di amicizia con Draghi, lo incita: “L’ex governatore della Bce è un fuoriclasse come Cristiano Ronaldo, non può stare in panchina. Senza la Lega questo governo sarebbe zoppo”. Il “noi, o i grillini” che pronuncia Salvini sa più di tattica che di ultimatum.
Per entrare la Lega ha però bisogno di condizioni politiche minime: l’esecutivo che nasce non può essere la fotocopia del Conte bis. Sarà quindi la composizione della squadra a fare la differenza. Indice della delicatezza di questa partita è quel riferimento a un governo “politico” fatto da Conte nel suo “discorso del tavolino” davanti a Palazzo Chigi. Dimostra l’esigenza che avvertono i partiti dell’ex maggioranza giallorossa di presenze politiche dentro la compagine che Draghi guiderà. Una richiesta che rischia di paralizzare la situazione dentro una ragnatela di veti incrociati. Il nome del premier uscente, ad esempio, è considerato inaccettabile da Forza Italia, e non solo. Ma altri ministri uscenti potrebbero non piacere alla Lega, e gli stessi nomi che il Carroccio potrebbe avanzare rischiano bocciature a raffica. Un tentativo di avvelenare i pozzi da parte di M5s e Pd e rendere impossibile alla Lega dare il via libera a Draghi.
Il quasi premier dovrà valutare attentamente come uscire da questa insidiosa strettoia, magari virando verso un esecutivo composto solo da politici. Mattarella lo ha lasciato assolutamente libero di scegliere la formula migliore, così come non ha posto alcun paletto in termine di tempo entro cui sciogliere la riserva con cui ha accettato, secondo la prassi, di formare il nuovo governo. Ecco perché al Quirinale nessuno si straccerebbe le vesti se fosse necessario un secondo giro di consultazioni, e la presentazione della lista dei ministri slittasse verso martedì o mercoledì della prossima settimana. Troppo importante dare un governo di alto profilo al paese con il Recovery Plan da gestire e la pandemia da contrastare. Mattarella si fida ciecamente di Draghi, e attende fiducioso. Dire di no a Draghi significa dire di no allo stesso Capo dello Stato.
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