Il governo di Pechino ha finito con la politica della bontà, il soft power degli aiuti medico-sanitari. I fatti di Hong Kong accompagnati dagli incidenti tra i ghiacciai eterni dell’Himalaya con i soldati indiani stanno a dimostrare i veri intenti autoritari di quel governo. La cosa strana è che la verità non è mai stata nascosta sotto il tappeto.
Se è sembrato altrimenti, è perché la strada per il mondo è lunga e noi europei distratti dalle beghe di casa nostra. L’azione di Pechino è sempre stata dettata da un solo scopo: il potere politico. I mezzi per raggiungere il fine possono essere i più disparati; anche l’economia, il vantaggio economico risponde sempre allo stesso fine. Per gli ex maoisti tutto è un mezzo per raggiungere l’obiettivo.
Esemplare dei movimenti del Paese di mezzo è l’impegno profuso in Africa. Noto è il tema del land grabbing, dell’acquisto massiccio di intere aeree geografiche di quel continente approfittando della debolezza di quelle comunità, dell’ambiguità americana e della solita politica europea non pervenuta.
Il continente africano è sconvolto in continuazione da crisi di tutti i tipi che si succedono l’una all’altra in modo devastante: Aids, guerre civili, Ebola, il crollo del prezzo del petrolio, la siccità, e ora anche il coronavirus. E la Cina è pronta a mandare aiuti sia di Stato che attraverso fondazioni “private” come quella di Ali Baba. Certo quel mercato, composto com’è da un miliardo di giovani consumatori, ha un potenziale enorme per i prodotti informatici a basso costo prodotti dalle aziende cinesi. Ma non basta a spiegare l’interesse del Pcc dato il valore esiguo che occupa lo scambio con quel continente: il 5% dei 4 trilioni di dollari del suo commercio mondiale.
Il Grande gioco in Africa del Celeste Impero ha poste molto alte. Risorse minerarie, partecipazioni in aziende locali, agricoltura, ma soprattutto basi militari e ricerca del controllo dei governi locali per ottenere uno scopo preciso, il consenso. Alleati, pacchetti di voti per avere la presidenza, o per lo meno essere determinanti, nel maggior numero possibile di organizzazioni internazionali. A cominciare dall’Organizzazione mondiale della sanità, alla Fao, di cui è presidente dall’anno scorso Qu Dongyu.
E l’azione cinese è irrefrenabile. Prestiti ai paesi africani continuamente rinnovati e rinegoziati per il valore esorbitante di 5,2 bilioni di dollari, nei settori strategici dei trasporti, dell’energia, delle miniere, delle comunicazioni e direttamente ai governi con Angola, Nigeria, Repubblica del Congo, Zambia, Camerun, Tanzania, Mozambico, Zimbabwe in testa. E Pechino con i creditori colpiti dalla pandemia si è dimostrata generosa, congelando immediatamente i debiti.
Il dato però più sconosciuto, che dimostra bene l’elasticità e la sensibilità dei discendenti di Confucio, è la politica dei “palazzi”, una forma particolare di corruzione. Le Monde del 26 gennaio 2018 riportava questi dati impressionanti (si veda anche il report dell’Heritage Foundation). L’anno scorso il Burundi, uno dei paesi meno sviluppati, ha inaugurato un palazzo presidenziale costato 22 milioni di dollari e costruito a ottimo prezzo e in tempi velocissimi, finanziato con fondi cinesi e da ditte cinesi. Lo Zimbabwe, con una economia in crisi, si è regalato grazie a Pechino una sede del parlamento da 100 milioni di dollari, mentre il governo della Liberia, altro paese in fondo alla classifica della povertà, ha operato una semplice ristrutturazione degli esistenti palazzi ministeriali per 66 milioni, pari al 2% del Prodotto interno lordo del 2019. Dal 1966, aziende cinesi hanno costruito o rinnovato 186 palazzi dei vari governi africani comprese 24 residenze di capi di Stato; e il governo di Pechino, o aziende ad esso legate, ha finanziato direttamente o indirettamente per lo meno 45 costruzioni.
Il fatto ancora più incredibile è che Pechino non si accontenta del mattone, ma imbottisce le costruzioni di microspie. Esemplare il caso, riportato sempre da Le Monde Afrique del 26 gennaio 2018, del palazzo sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba, regalato dalla Cina nel 2012. Costruzione chiavi in mano, compresa la rete informatica ad opera della cinese Huawei, che ha pensato bene di scaricare per anni direttamente i dati in suo possesso un po’ di migliaia di chilometri più ad est, a Shanghai, presso la sede della Unit 61398, unità di cyberspionaggio dell’esercito cinese…