L’immagine che rende meglio la situazione è quella di un Zingaretti che guarda nervosamente l’orologio. Come quegli allenatori che arrivati al 90’ sullo 0-0 si muovono davanti alla panchina perché, pur soddisfatti del pareggio, vedono la loro squadra sempre più in affanno. L’esito della partita dipenderà dall’ampiezza del “recupero” che assegnerà l’arbitro, che come sappiamo nel nostro caso si chiama Mattarella. Si spera che sia il più breve possibile, per alleviare la sofferenza ed evitare il peggio, ma il tabellone luminoso segna altri minuti, un’enormità.



Ieri è andata praticamente così. Proprio nel momento di massima tensione, quando l’uomo del Pd su cui è caduta tutta la responsabilità della trattativa cercava di resistere all’ennesimo ricatto di Di Maio, confidando sui tempi ristretti imposti dal Presidente della Repubblica, i suoi uomini di punta hanno incominciato a dare segni chiarissimi di cedimento. E mentre lui cercava di tenere alta la guardia per difendere l’onore del partito, l’odore di tante poltrone di nuovo disponibili rendeva la sua squadra pronta ad ogni compromesso.



Come non bastasse, a pochi minuti di distanza, arrivavano nel pomeriggio ben due inaspettati messaggi di sostegno per Conte. Trump, fedele al suo stile, è intervenuto nella crisi di governo a gamba tesa. Dopo poco è addirittura un’icona della sinistra radical chic come Bill Gates a ringraziare personalmente il presidente del Consiglio italiano per l’aiuto dato ad un suo progetto in Africa.

Per non farsi mancare niente, Beppe Grillo ha reso pubblico un dialogo avuto con Dio. Grillo è un po’ ermetico, ma dal resoconto della sua chiacchierata si capisce che anche il Padreterno, tutto sommato, tifa per l’ex premier ed esorta il vecchio comico a non abbassare il livello dei vaffa da somministrare agli italiani. In fondo Dio non vede di cattivo occhio l’accordo con il Pd.



Subito dopo il post di Grillo, e dopo i tweet di Trump e Gates, la trattativa – come le acque del Mar Rosso – si è riaperta senza più ostacoli.

Colpiscono le immagini delle due delegazioni del Pd e dei 5 Stelle riunite in una saletta alla Camera. Si vedono chiaramente che esse sono composte da persone entusiaste e sorridenti: del resto si apprestano a scrivere la prima bozza del programma di governo e non sembrano spaventate dalla complessità dell’opera.

In realtà quella riunione fotografa perfettamente aspiranti ministri che mal celano l’entusiasmo per i loro futuri incarichi.

Zingaretti si è visto costretto a gestire l’ultima fase della trattativa – quella più difficile – sotto il pressing di un folto gruppo di “poltronisti”. È rimasto praticamente da solo a respingere la crescente aggressività dei grillini. Ciò nonostante ha portato a casa la definitiva rinuncia di Di Maio per la vice-presidenza. Ma non riuscirà ad impedire il rito del voto senza controllo sulla piattaforma Rousseau.

Il governo si farà, perché la spinta prodotta, in Italia e nel mondo, dalla voglia di dare una lezione a Salvini e alla Lega sovranista sopravanza ogni altra considerazione.

Ma i problemi emersi in questi giorni non scompariranno e non sarà facile risolverli una volta che il governo nascerà. Paradossalmente il governo giallo-verde aveva un punto fermo: il contratto. Con la filosofia del contratto in realtà si era stabilito che ognuno dei due partner poteva realizzava in autonomia i propri obiettivi caratterizzanti. Questo modello non può funzionare con il Pd, una forza che ha la pretesa di dire la propria su ogni cosa. Per questo motivo hanno insistito per un più tradizionale “programma di governo”. Basterà per trovare la mediazione giusta ogni volta?

Ora è questa la sfida. E Zingaretti ha deciso, prudentemente, di restarne fuori.