Vince l’asse del Nord. Vince la Lega di Giancarlo Giorgetti. Vincono i governatori dell’autonomia regionale, quella che la delegazione salvianiana al Governo non ha saputo portare a casa.
E un Matteo Salvini con le spalle al muro e malgrado la stima per Di Maio che lo stesso leader leghista ha voluto pubblicamente ribadire anche in queste ore febbrili, è stato costretto a cedere il passo all’ala giacobina del partito ed affossare il “suo” Governo del cambiamento.
Questa la cifra politica di una crisi al buio, precipitosa e, per molti versi, irrituale.
Sebbene la Lega venisse da una settimana di conclamati successi, dall’approvazione del decreto sicurezza bis (poi controfirmato e promulgato dal Capo dello Stato), al via libera del premier confermato a larga maggioranza dal sì del Parlamento sull’alta velocità Torino-Lione (Tav), niente è servito a Salvini per continuare l’esperienza gialloverde.
La minaccia era chiara: senza l’autonomia regionale, ovvero, senza la normativa che avrebbe permesso alle Regioni del Nord di trattenere e gestire in loco un vero e proprio “malloppo” di risorse aggiuntive (roba da miliardi di euro), la delegazione della “Lega Nord” capeggiata dal sottosegretario Giorgetti avrebbe lasciato l’esecutivo sancendo di fatto e platealmente quella spaccatura che da mesi alberga in via Bellerio.
Per Matteo Salvini ed il suo progetto di “Lega nazionale” un vero e proprio ultimatum a cui il ministro dell’Interno ha dovuto far buon viso a cattivo gioco.
Ma è al momento dell’addio che è accaduto il colpo di scena: il preventivato piano per tornare alle urne studiato a tavolino dal sottosegretario Giorgetti è stato boicottato dal premier, il quale (forse d’accordo con il leader leghista che non sembra proprio entusiasta del voto in autunno), si è rifiutato di rassegnare le dimissioni rinviando tutte le decisioni al Parlamento, con i pericoli che ciò comporta per lo scioglimento delle Camere e l’approvazione (e con la crisi sempre più lontana) dell’autonomia regionale. Approvazione che, paradossalmente, il leader 5 Stelle Luigi Di Maio, con qualche modifica, aveva assicurato.
Un corto circuito che rischia di diventare un boomerang per la Lega, costretta a rinnegare un’esperienza che Salvini in persona aveva voluto e difeso con i denti e che – comunque la si veda – aveva fruttato il raddoppio dei consensi per il Carroccio, l’aumento della compagine di governo in camicia verde con l’insediamento del nuovo ministro salviniano al dicastero dei rapporti con l’Europa e la possibilità di nominare un esponente leghista a Bruxelles.
Insomma una stagione di successi immolata sull’altare “dell’egoismo regionale” e della bramosia di potere da parte del Nord.
Eppure, proprio i molti pericoli: l’insicurezza del voto (i franchi tiratori della non-fiducia sono sempre in agguato), il rischio del “Governo di scopo” di stampo mattarelliano assai poco autonomista e il rinvio sine die della riduzione fiscale, potrebbero – alla fine – far rinsavire molti e consigliare la stesura di un nuovo “contratto” e la ripresa della navigazione del gabinetto Conte che, in barba a tutti, è sempre in sella; sostenuto da un lato dal partito di maggioranza relativa in Parlamento che all’occorrenza potrebbe sempre divenire il motore per nuove alleanze; e dall’altro, dal Colle più alto, per vocazione prudente, accorto ed esperto in venti di burrasca.
Lo scenario è apertissimo. E niente appare scontato.
Ciononostante una certezza brilla chiara nel firmamento della politica italiana: la Lega, il partito più gettonato dagli elettori, nell’infinito “gioco del cerino” stavolta rischia davvero di bruciarsi le dita.