“Terribile è l’ira del mansueto”, è scritto nella Bibbia. Ci sta pensando seriamente Nicola Zingaretti. Chi gli ha parlato in queste ultime ore ha capito che “l’ira dei mansueti” è solo una parte, quella di cuore, che il leader dei democratici si accinge a recitare.
Ma il suo ragionamento è ben più complesso. Paradossalmente tutto ciò che per gli altri “capi politici” della coalizione giallorossa è un buon motivo per tirare a campare, per il meno comunicativo dei fratelli Zingaretti è una campana a morto.
Moti dicono che questo governo starà in piedi per il giro di nomine dei grandi enti a primavera. Ma il fratello di Montalbano intuisce che le nomine che verranno concesse ad Italia viva, tanto esile nei sondaggi quanto vorace di posti e prebende, saranno per Matteo Renzi l’occasione di fare campagna acquisti nel Pd. E per di più tra i nominati direttamente dal Pd ci saranno persone riconducibili ai renziani di complemento rimasti nel Pd sotto mentite spoglie e che potrebbero ricongiungersi al senatore semplice di Rignano sull’Arno una volta fatto bottino pieno, a cominciare dai capigruppo Marcucci e Delrio. Molto meglio, è la conclusione del segretario del Nazareno, che le nomine le faccia il centrodestra magari disposto, via Gianni Letta, a lasciare al clan romano del Pd, l’asse Zingaretti-Bettini-Gualtieri, quanto serve proprio al fine di isolare un Renzi pericoloso oggi tanto per i dem quanto per Forza Italia.
Altri sostengono che bisogna andare avanti per impedire a Salvini di vincere: ma andare avanti per il Partito democratico significa accollarsi il peso di politiche fallimentari che alimenterebbero il racconto di uno Zingaretti che perde tutte le Regioni e poi, prima delle politiche, forse pure la poltrona di segretario in favore di Andrea Orlando.
Proprio perché inesperti, i 5 Stelle perderanno voti e credibilità con la stessa facilità con cui li hanno guadagnati, ma al Pd può succedere di peggio e cioè diventare una sorta di Re Mida al contrario, seminando nei suoi elettori un senso di rassegnazione e sfiducia dopo una serie impressionante di governi sfiduciati in primis da beghe interne al partito. Se si vota entro marzo, il Pd prende grosso modo i voti delle europee anche contando gli effetti della defezione di Renzi, e la nuova segreteria eleggerebbe i propri deputati dopo la stagione delle veline renziane. Votando più avanti nel tempo, Renzi avrà modo di organizzarsi e di intaccare mediaticamente le residue forze del Nazareno, e peggio ancora andrebbe allungando ad oltranza la vita di un governo nato per l’Iva e che rischia di morire per l’Ilva.
Ma i benpensanti replicano che prevarrà l’esigenza di votare un presidente della Repubblica pro Europa. Motivazione rilevante. Ieri Dario Franceschini sul Corriere della Sera sosteneva che dell’elezione del presidente è “vietato parlare per decreto”. Ha ragione.
Ma proprio da questa elezione, fatta da questo Parlamento, dove avrebbero campo libero molti dei famigerati 101 che hanno affondato il Pd di Bersani e della “ditta”, Nicola Zingaretti ha intenzione di guardarsi. Queste sono le conclusioni che potrebbero motivare il più affine tra gli imitatori del commissario Montalbano a chiudere le indagini decidendo, con un colpo a sorpresa, di votare la legge di bilancio ed al tempo stesso sfiduciare Conte entro fine anno per arrivare alle urne entro marzo, come già fece, per sopravvivere, Berlusconi ai danni del governo Monti nel dicembre 2012. Il mite Zingaretti tutte queste cose le pensa. Avrà il coraggio di farle?
La risposta è nelle enigmatiche parole dell’eroe di Camilleri: “…ci sono uomini di qualità che, messi in certi posti, risultano inadatti proprio per le loro qualità all’occhi di gente che qualità non ne ha, ma in compenso fa politica” (da La prima indagine di Montalbano)