L’Istat ha provveduto, in accordo con le istituzioni europee, a una revisione generale delle stime dei Conti economici nazionali per il triennio 2021-23 introducendo innovazioni e miglioramenti metodologici e di fonti. I risultati della revisione sono di notevole interesse in quanti essi modificano al rialzo in misura significativa i dati del Pil e dei principali aggregati economici nell’intero triennio. Anche i tassi di variazione sono in conseguenza modificati, tuttavia variazioni che appaiono di un certo rilievo in valore assoluto risultano meno significative quando espresse in variazioni percentuali.



Per effetto della revisione, il Pil nominale del 2021 risulta maggiore di 20,6 miliardi rispetto al valore precedente, quello del 2022 di 34,2 miliardi e infine quello del 2023 di 42,6 miliardi, attestandosi a 2.128 miliardi. In termini reali il Pil del 2023 si attesta per la prima volta al di sopra del precedente massimo, raggiunto l’anno precedente la crisi finanziaria del 2008 che diede luogo alla prima della due recessioni consecutive. Ci sono voluti dunque ben sedici anni per recuperare il volume di risorse reali prodotte dal nostro sistema economico nel lontano 2007, a dimostrazione di come la recessione del 2008-9 e soprattutto quella del 2011-13 abbiano compromesso nel lungo periodo la nostra capacità di crescita.



Sempre in termini reali la crescita del Pil risulta rivalutata per il 2021 dal precedente 8,3% all’attuale 8,9%, con un incremento di sei decimi di punto, e per il 2022 dal precedente 4% all’attuale 4,7%, con un incremento di sette decimi di punto. Per il 2023 la correzione è invece al ribasso di due decimi e si attesta allo 0,7% rispetto al precedente 0,9%.

Questa revisione generale dei conti economici e degli aggregati di finanza pubblica ha prodotto anche l’effetto di un lieve miglioramento dei rapporti tra disavanzo pubblico e Pil. L’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche, come viene chiamato il disavanzo pubblico dagli addetti ai lavori, è diminuito in rapporto al Pil dall’8,6% all’8,1% nel 2002 e dal 7,4% al 7,2% nel 2023, valori che restano comunque un multiplo del 3% previsto dal Trattato di Maastricht.



Queste piccole limature non modificano infatti l’entità delle voragini prodotte nella nostra finanza pubblica dal Covid così come dalle politiche realizzate per attutirne gli effetti macroeconomici e sui redditi delle famiglie e degli operatori economici. Il saldo primario, corrispondente all’indebitamento al netto della spesa per interessi, resta negativo per tutto il triennio considerato, attestandosi secondo i nuovi dati al -5,4% del Pil nel 2021, al -4% nel 2022 e al -3,5% nel 2023.

Per quanto riguarda lo scorso anno è interessante andare a vedere quali componenti della domanda aggregata e dell’offerta hanno portato a una crescita contenuta dello 0,7% rispetto alla precedente stima dello 0,9%. Al riguardo si scoprono infatti cose interessanti. Dal lato della domanda abbiamo avuto in termini reali:

– un aumento dei consumi finali nazionali dell’1,2% (di cui consumi delle famiglie +0,9%, della Pa +1,9% e delle istituzioni private non profit +7,3%);

– un aumento degli investimenti fissi lordi addirittura dell’8,5%, chiaro effetti degli incentivi 110% che hanno simmetricamente affossato la finanza pubblica;

– una crescita delle esportazioni di beni e servizi dello 0,8% a fronte di una riduzione delle importazioni dello 0,4%.

A questo punto il lettore attento si sarà già chiesto, dati questi buoni numeri, come sia stata possibile una crescita complessiva del Pil così contenuta… Infatti, per il solo effetto dei consumi finali nazionali il Pil reale sarebbe dovuto crescere dello 0,9%, per il solo effetto degli investimenti addirittura dell’1,9% e per il solo effetto dell’export al netto dell’import dello 0,4%. Sommando i tre valori arriviamo a uno strabiliante 3,2%. Com’è dunque possibile che un aumento della domanda aggregata pari al 3,2% abbia condotto a una crescita del Pil pari solo allo 0,7%? La risposta è che questo rilevante aumento della domanda è stato prevalentemente soddisfatto attingendo a scorte preesistenti, la cui riduzione ha coperto ben 2,5 dei 3,2 punti percentuali di crescita della domanda.

Dal lato dell’offerta il valore aggiunto in termini reali si è ridotto nel 2023 dell’1,6% nell’industria in senso stretto e del 3,5% nell’agricoltura, silvicoltura e pesca, mentre è aumentato del 6,7% nelle costruzioni e dell’1,1% nei servizi.

Infine, per concludere, quella che è ad avviso dello scrivente il migliore tra tutti i nuovi dati: il rapporto tra debito pubblico e Pil si è attestato nel 2023 al 134,6%, in riduzione rispetto al dato ante-revisione che era del 137,3%. Con la revisione dell’Istat abbiamo dunque recuperato quasi tre punti. Il nuovo valore si colloca, inoltre, quasi venti punti al di sotto del record raggiunto col 154,1% nel 2020, il primo anno dell’epidemia Covid.

L’effetto prodotto dal Covid sul rapporto più importante della nostra finanza pubblica è dunque totalmente rientrato, se consideriamo che nell’ultimo anno ante-Covid, il 2019, il rapporto debito/Pil fu del 134,2%, dunque pochissimi decimali al di sotto del valore attuale.

In seguito alla revisione Istat il ministro dell’Economia e delle finanze Giorgetti ha dichiarato che essa non è di entità tale da modificare “i principi e il quadro del Piano strutturale di bilancio già esaminato dal Cdm lo scorso 17 settembre”, il quale sarà semplicemente “rifinito alla luce dei numeri comunicati oggi da Istat”.

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