Dopo essere arrivato ai minimi degli ultimi dieci anni, negli ultimi giorni l’euro sembra essersi un po’ ripreso nei confronti del dollaro. Ieri il cambio era a 1,07 rispetto ai minimi di 1,03 raggiunti a metà maggio; un anno fa il cambio era a 1,23. Le ragioni di questo rafforzamento sono da rintracciare in un prossimo rialzo dei tassi della Banca centrale europea, l’ultima tra le grandi Banche centrali ad alzare il tasso di riferimento. L’istituzione guidata da Christine Lagarde è stata anche l’ultima ad abbandonare la tesi della transitorietà dell’inflazione l’autunno scorso. 



Il rialzo dei tassi diventa inevitabile, nonostante la recessione che si avvicina, perché l’indebolimento dell’euro importa inflazione. Più la valuta è debole più si pagano le materie prime e si peggiora un problema che da qualche mese è in cima alle preoccupazioni politiche ed economiche. L’Unione europea subirà le maggiori conseguenze delle sanzioni che sono state imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. I rapporti tra Europa e Russia, per ovvie ragioni geografiche, sono più stretti di quelli tra Stati Uniti e Russia. Il gas e petrolio russi, comprati a buon prezzo con contratti di lungo periodo, sono una parte fondamentale della competitività delle imprese europee. L’Europa, prima ancora dell’inizio del conflitto, è la regione che ha più da perdere dalla rottura delle catene di fornitura globale e dalla fine di una certa globalizzazione. L’Europa ha prosperato in un mondo in cui l’approvvigionamento di materie prime e componenti non era un problema. Oggi i Paesi bloccano le esportazioni, le catene di fornitura sono precarie e l’Europa non ha un peso militare e politico che consenta di giocare da protagonista questa fase. Non è un caso che l’euro si sia indebolito negli ultimi dodici mesi e che questo trend sia peggiorato dopo l’invasione dell’Ucraina.



L’indebolimento della valuta è una conseguenza delle prospettive economiche che non solo in senso assoluto ma anche in senso relativo sono peggiori. Gli investitori lasciano l’Europa. Il Bund, il decennale tedesco, che sarebbe quanto di più sicuro si possa trovare in questo continente negli ultimi dodici mesi ha fatto molto peggio del corrispondente americano che ha fatto peggio di obbligazioni di Paesi emergenti, su tutti il Brasile, e dei metalli preziosi. L’indebolimento della valuta peggiora l’inflazione e acuisce i problemi economici e sociali connessi.

L’Europa quindi, controvoglia, non può fare altro che alzare i tassi per evitare un circolo vizioso di svalutazione che alimenta il deflusso di capitali. Lo deve fare, dopo tutti gli altri, proprio quando la recessione si avvicina. In questo continente il rialzo dei tassi ha un effetto indesiderato che è l’aumento degli spread e in particolare di quello italiano. L’aumento degli spread si porta dietro una fase di incertezza politica sia in Europa che in Italia e la polemica tra creditori e debitori, tra Paesi con poco debito e Paesi con alto debito, tra Paesi poco o meno colpiti dalla crisi. Si pensi, a proposito di unità in Europa, che due giorni fa il Primo ministro polacco ha chiesto che la Norvegia condivida i profitti derivanti dalla vendita di petrolio e gas visto che l’aumento dei prezzi è una conseguenza della guerra.



L’aumento degli spread solleva le richieste di una maggiore disciplina fiscale, che infatti in questi giorni si accumulano sulla rotta Bruxelles-Roma, proprio quando il contesto economico peggiora.

La polemica su chi abbia ragione è sterile. Quello che conta è che l’euro è una costruzione imperfetta in cui gli investitori vedono l’origine degli spread e la “esplorano”. Non crediamo che una maggiore disciplina fiscale, tanto più in questa fase, possa essere una soluzione ai problemi attuali. Poteva esserlo un decennio fa e comunque avrebbe implicato, in Italia, la ristrutturazione profonda dello Stato e della burocrazia. 

La novità è che lo “spread” è un fenomeno che arriva in una fase geopolitica ed economica molto complicata. Non c’è un problema “europeo”, politico ed economico, in un mondo stabile. La leadership europea, anche la migliore, non sembra all’altezza.

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