C’è una scuola di pensiero di economisti stimati che “non si spiega” né l’inflazione in corso, né le attese di inflazione futura. Il disaccordo rispetto a quello che si legge sempre più spesso sulle pubblicazioni economico-finanziarie prende le mosse dall’andamento degli indici sulla fiducia dei consumatori e dalle vendite commerciali che consegnano uno scenario di domanda debole. L’osservazione, secondo questa “scuola”, è coerente con i tassi delle obbligazioni che rimangono compressi e con uno “spread” tra durate a dieci e trent’anni ai minimi; sono livelli che suggeriscono che gli investitori non vedono particolare inflazione nei prossimi trimestri.
L’incremento dei prezzi a cui stiamo assistendo in questa fase non è in gran parte dovuta alle politiche delle Banche centrali; l’immissione di liquidità ha avuto sicuramente un impatto sugli asset finanziari e su alcuni settori dell’economia come l’immobiliare, ma ci sono almeno due motori dell’inflazione che non hanno niente a che fare con Fed e Bce.
Il primo è la guerra commerciale tra “Occidente” e Cina che ha messo in crisi il funzionamento delle catene di fornitura globale e che verrà risolta, con tempi medio-lunghi, spostando la produzione in Paesi che hanno costi strutturalmente più alti. Il secondo sono le politiche energetiche di buona parte dei Paesi sviluppati che sostituiscono fonti affidabili e sicure, impedendo investimenti in estrazione, con il salto nel buio, costosissimo, delle rinnovabili. Né i Paesi Opec, né la Russia sembrano avere intenzione di aumentare la produzione; sono ancora freschi nella memoria i mesi in cui i prezzi si schiantavano per via dei lockdown e le politiche energetiche dei Paesi importatori non sono affidabili; anche i rapporti geopolitici non permettono di avere visibilità sufficiente per aumentare investimenti e produzione.
Questa può essere una ragione che spiega, in parte, come mai alcuni economisti non abbiano previsto correttamente questa fase. Potrebbero però essere parzialmente vendicati nei prossimi mesi. Stiamo assistendo a un’impennata dei costi energetici e dei prezzi degli alimentari. Sono due voci di spesa non discrezionali che sono in fondo alla lista delle cose da tagliare. I prezzi hanno appena cominciato a riflettersi sui prodotti che entrano nel carrello della spesa; significa che la quota di reddito disponibile non può che ridursi. Se l’inflazione delle bollette e degli alimentari non è ancora arrivata in pieno, come sembra, e se i tempi di consegna si sono allungati a dismisura potremmo essere in una fase di transizione in cui alcune imprese stanno sovrastimando la domanda futura. Significa che in alcuni settori potremmo effettivamente trovarci in una situazione di eccesso di offerta.
Fino a che la guerra commerciale continua e fino a che i prezzi degli idrocarburi non scendono è difficile credere che l’inflazione possa rientrare. Il fenomeno potrebbe coesistere con sacche di disinflazione o deflazione in settori che si trovano, “improvvisamente e inaspettatamente”, in una situazione di sovraproduzione. Potremmo approcciare il fenomeno fingendo che ci siano due “inflazioni”: una per il ceto medio e medio basso, che deve tagliare drasticamente le spese più discrezionali, e quella dei “panieri” che avrebbero pesi ormai privi di significato.
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