Com’era abbastanza prevedibile, il Deep State ha voluto subito rispondere al colpo di testa di Donald Trump. L’aver cacciato John Bolton in quel modo, l’aver aperto all’ipotesi di un dialogo con l’Iran, quando il complesso bellico-industriale – il warfare – spingeva per una guerra o, comunque, per un aumento della tensione che obbligasse i “clienti” mediorientali del Pentagono a una campagna munifica di riarmo, non è piaciuto. E le conseguenze non si sono fatte attendere. Con timing perfetto. Ovvero, pochi giorni dopo l’estromissione del falco neo-con con un tweet, due giorni dopo la riunione dell’Opec e tre giorni prima delle elezioni politiche in Israele di oggi, con un Bibi Netanyahu che, trovandosi in difficoltà con i sondaggi, era tornato ai vecchi cavalli di battaglia elettorali: insediamenti e Iran. E, soprattutto, a quattro giorni dal d-day della Fed, visto che domani sera alle 20 ora italiana Jerome Powell sarà chiamato a rispondere al bazooka di Mario Draghi.



Insomma, se si tratta di una casualità, diciamo che è di quelle che fanno decisamente comodo. E Mike Pompeo, da buon ex capo della CIA quale è, ha avuto fin da subito la decenza di dettare la linea in punta di realismo: per una volta, è stato infatti il Capo del Dipartimento di Stato a twittare la posizione americana, seguito solo dopo dal Presidente. E, soprattutto, ha immediatamente negato le responsabilità dei ribelli Houthi, chiamando in causa direttamente Teheran.



Perché dico in punta di decenza? Ce lo mostra questo grafico, dal quale si evince che quello occorso sabato scorso è stato l’attentato più distruttivo di sempre contro un impianto petrolifero, roba da libri di storia: in effetti, stando alla narrativa ufficiale, gli 11 droni andati a segno hanno dimezzato di netto la produzione saudita a livello di barili quotidiani.

Prima riflessione: che l’entità dell’attacco sia reale o meno, difficilmente guerriglieri duri e irriducibili ma grezzi e con mezzi poco sofisticati come gli Houthi potrebbero portare a termine un attacco simile. Seconda e più importante, comunque sia, penso che dopo un precedente simile, Ryad stanzierà – fra il giubilo dei suoi cittadini, in molti casi alla fame – qualche bel centinaio di miliardi di dollari in investimenti (invece che in welfare) per la futura difesa dei proprio “oro nero”: e, a vostro modo di vedere, chi fornirà tecnologia e armamenti all’Arabia Saudita? Bravi. Terza riflessione, qualcosa non torna, visto che a fronte di danni ufficiali come quelli riportati dalla tabella di Bloomberg, le autorità saudite si sono dette in grado di far ripartire un terzo della produzione totale a sole 48 ore dall’attacco. O non è andata esattamente come ci dicono le cronache ufficiali o millantano, tertium non datur. Ma poco importa, perché il petrolio che nei primi trades asiatici prende il 19% a livello di prezzo, massimo balzo intraday dal 1991, dopo trimestri e trimestri di stagnazione, è manna. Per tutti.



Per gli Usa i quali hanno sì superato Arabia Saudita e Russia come primo esportatore al mondo grazie alla rivoluzione shale oil, ma, sempre con riferimento alla nuova tecnologia, cominciavano a patire non poco l’indebitamento del settore a fronte di prezzo del barile che non saliva. Ora, invece, non solo si può respirare, ma l’eventuale ricorso alle riserve strategiche, come ipotizzato da Donald Trump, apre nuovo spazio produttivo, un qualcosa di assolutamente insperato. Ma anche la stessa Ryad gode, poiché come mostra questo grafico, nonostante abbia limato in rialzo e poi al ribasso la propria produzione per cercare di stabilizzarsi con i trend di mercato pre e post-sanzioni all’Iran, il deficit fiscale saudita necessita di greggio almeno a 80 dollari al barile per raggiungere un break-even accettabile. E, soprattutto, ora che si è tornati a parlare di privatizzazione di Aramco, il gigante statale dell’energia, la madre di tutte le Ipo: e chi pensate che ne curerà la quotazione in Borsa, agendo da sottoscrittore?

Bravi anche in questo caso, i big di Wall Street. Infine, ecco il terzo grafico, quello che dimostra come – in fondo, in fondo – tutti siano abbastanza soddisfatti per quanto accaduto sabato scorso, perché paradossalmente bad news is good news nel mondo dominato dalle Banche centrali. E siccome ogni ciclo recessivo dell’economia Usa negli ultimi 50 anni è stato preceduto da una fiammata del prezzo del petrolio, ecco che – casualmente – una dinamica simile va a innescarsi quasi in perfetta contemporanea con la riunione del Fomc della Fed di oggi e domani, chiamato a tagliare i tassi e – magari – a dare un colpetto di Qe sull’acceleratore dell’helicopter money ormai in atto a livello globale.

E state certi che, inoltre, se Usa e Cina stavano cercando un modo onorevole per uscire dall’impasse venutosi a creare con la guerra commerciale, una crisi energetica è quanto serviva per sedersi a un tavolo e porre fine alla pantomima, prima che questa crei danni strutturali reali. Ovviamente, per senso di responsabilità verso la comunità internazionale, almeno anche la faccia è salva. Infine, qualunque siano stati responsabili e conseguenze reali dell’atto, quanto accaduto garantisce uno spin elettorale notevole a Bibi Netanyahu per la tornata elettorale di oggi, quantomeno a livello di indecisi. Perché quando nelle ore precedenti al voto, i media ti bombardano con notizie che vanno tutte nella medesima direzione, il tuo voto diviene per forza potenzialmente manipolabile. Non fosse altro perché scatta la “sindrome di sopravvivenza”, ovvero la scelta fra usato sicuro e salto nel buio in una situazione di emergenza, quantomeno percepita.

Insomma, signori, comunque sia andata realmente, sarà un successo. E voi ancora credete alle panzane del voto libero e democratico e del popolo sovrano nel decidere il proprio destino? Soltanto in questo Paese possiamo dedicare tre quarti dei telegiornali al raduno di Pontida (dove il senatore Salvini indica la signora Thatcher nel suo pantheon ideale, ma si tiene come economisti di riferimento Borghi e Bagnai, praticamente come bestemmiare in Chiesa per rivendicare la propria fede) e agli appelli stile film di Mario Merola dei vertici Pd a Matteo Renzi, affinché non dia vita alla scissione. Là fuori, il mondo ragiona in altro modo. Non lamentiamoci, poi, del fatto che ci trattino come l’ultima delle colonia. Perché, spesso e volentieri, scegliamo noi stessi di comportarci come tale con il nostro provincialismo un po’ cialtrone e falsamente furbetto.