Il prezzo del petrolio ieri ha passato i massimi di autunno 2014 portandosi a oltre 85 dollari al barile. La domanda di petrolio è superiore ai livelli “pre-pandemici” e l’offerta, invece, stenta ad aumentare; dopo il crollo dei prezzi del 2014 il ciclo degli investimenti del settore non è mai ripartito e oggi le società sono costrette ad adeguarsi alle agende politiche sulla transizione “verde”. Le scorte di petrolio oggi sono molto più basse rispetto all’inizio del 2020 quando la pandemia ha fatto la sua comparsa. Fino a cinque anni fa questi prezzi avrebbero già innescato un ciclo di nuovi investimenti, un incremento dell’offerta e in ultima analisi la stabilità dei prezzi. Il processo della transizione invece non si ferma nonostante i costi colossali per l’economia e le famiglie; nonostante le alternative “green” non siano né competitive con le fonti tradizionali, né mature perché la tecnologia per immagazzinare l’energia non c’è ancora; nonostante il costo delle auto elettriche non solo non stia scendendo ma aumenti; nonostante si parli ormai apertamente di possibili blackout.
Non tutti gli Stati e le regioni sono nella stessa condizione. Nessuno Stato ha imposto lo stesso ritmo dell’Europa, la stragrande maggioranza, Stati Uniti e Cina inclusi, fanno molto meno e altri non fanno proprio niente semplicemente perché non si possono permettere le rinnovabili e i rischi che comportano per l’economia e il benessere delle famiglie. La chiusura delle imprese che comincia a vedersi in Italia per il caro bolletta non è un fenomeno globale; è un fenomeno particolare che si potrebbe evitare semplicemente rallentando sulla transizione energetica oppure lavorando sulle fonti tradizionali con buon senso e attenzione all’ambiente.
L’andamento del prezzo del petrolio riflette ovviamente anche l’abbondante liquidità sui mercati e la ricerca da parte degli investitori di strumenti con cui proteggersi dall’inflazione visto che le obbligazioni hanno rendimenti reali ampiamente negativi e le valutazioni delle azioni si scontrano con un rallentamento della crescita economica. Le materie prime in generale, non solo il petrolio, negli ultimi mesi sono diventati un rifugio tanto più attraente quanto più le politiche green e le guerre commerciali limitano la produzione. L’incertezza sulle prospettive economiche di breve-medio termine accentua questo fenomeno.
Il contesto in cui avviene questo rialzo è però diverso da quello degli ultimi cicli perché oggi l’inflazione è ai massimi degli ultimi 40 anni. Le banche centrali si trovano strette tra l’esigenza di stimolare la crescita che, per certi versi, è ancora fragile, di salvaguardare imprese private e istituzioni pubbliche che hanno debiti molto più alti rispetto al 2019 e, allo stesso tempo, di contenere il fenomeno inflattivo. L’incremento del prezzo del petrolio in questo senso è una cattiva notizia per le banche centrali perché spinge ulteriormente sull’inflazione.
Lo scenario di stagflazione diventa concreto. Nel breve periodo la principale variabile è l’inizio e il ritmo di una possibile fase di incremento dei tassi a cui il mercato non sembra pronto. Più il prezzo del petrolio sale, più per le banche centrali diventa difficile giustificare il mantenimento dei tassi a questi livelli. Non è un caso che i massimi degli ultimi sette anni del prezzo del petrolio abbiano coinciso con una giornata negativa per azioni e obbligazioni.
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