La banca centrale americana ieri ha alzato i tassi di 75 punti base come da previsioni evitando un rialzo di 100 punti che si era fatto strada negli ultimi giorni come una delle possibilità. Il Presidente Powell ha ribadito l’impegno a far scendere l’inflazione al 2%, ha confermato che la Fed non vuole fare l’errore di abbassare i tassi troppo presto e ha dichiarato che la banca centrale farà scendere le attività finanziarie detenute fino a 95 miliardi di dollari al mese.



La maggioranza dei membri della Fed si attende che i tassi nel 2023 si posizioneranno tra il 4,5% e il 4,75% mentre solo tre mesi fa, a giugno, ci si aspettava che i tassi l’anno prossimo si sarebbero fermati al 3,75%. Le stime di disoccupazione per il 2023 sono state riviste al rialzo dal 3,9% al 4,4%. Significa che la Fed ha messo in conto il prezzo che verrà pagato sul mercato del lavoro per la riduzione dell’inflazione. Più in generale in questo momento il rallentamento della crescita dei prezzi viene ritenuto un obiettivo più importante rispetto al rischio di rallentamento economico.



Nell’equazione gli investitori quindi si devono chiedere quanto in fretta i prezzi cominceranno a scendere e quanto grave sarà la recessione. Esattamente come l’inflazione è molto più alta e duratura di quanto si ritenesse meno di un anno fa, anche il rialzo dei tassi della banca centrale americana potrebbe essere più sostenuto di quanto non si ritenga oggi; gli investitori in qualche modo si aspettano che la Fed rallenti di fronte al rischio che, come ha dichiarato meno di un mese fa l’ad di Jp Morgan, “qualcosa di peggio di una recessione” possa essere all’orizzonte.



Gli ultimi dati sull’inflazione americana ci hanno lasciato con numeri vicino ai massimi degli ultimi 40 anni, oltre l’8%, e alcune evidenze sul fatto che l’aumento dei prezzi sia tutt’altro che temporaneo. Da questo punto di vista la Fed ha “materiale” per continuare a rialzare forte di un mercato del lavoro che è ancora in salute e di una crisi energetica che è una frazione di quella europea al punto che ormai quotidianamente si raccontano storie di imprese che chiudono in Europa per aprire dall’altra parte dell’oceano.

L’economia americana ha margini di tempo e di crescita per continuare nel suo percorso. Questa è una grande “sfida” per l’Europa che invece non ha né margini economici, né margini di tempo. Il crollo dell’euro, continuato ieri, non ha portato a un miglioramento della bilancia commerciale come sarebbe stato lecito attendersi nel vecchio mondo. L’euro crolla e le imprese europee non aumentano le proprie esportazioni più che proporzionalmente rispetto alle importazioni. È la prova provata che il modello europeo che abbiamo conosciuto negli ultimi 20/30 anni è saltato sull’altare delle sanzioni e dell’esplosione dei costi energetici. L’Europa non ha margini di tempo perché la recessione nel Vecchio continente è qui e ora con le imprese che chiudono senza che nemmeno se ne parli.

Il contesto finanziario in cui si sviluppano questi fenomeni segue il ritmo dettato dalla banca centrale che emette la valuta di riserva globale e cioè dalla Fed. Ci sarebbero contraccolpi finanziari anche se l’economia globale non fosse in una fase così delicata. La liquidità si ritira e come sempre abbandona per primi i lidi più problematici e i confini più estremi e deboli dell’impero. La Bce per difendere l’euro ed evitare di importare ancora più inflazione con un eccessivo indebolimento della valuta comune probabilmente non potrà fare altro che alzare i tassi. Tutti però senza eccezione sanno cosa questo significhi per l’Europa con i suoi problemi irrisolti. Spagna e Portogallo si salvano perché sono i due Paesi in Europa che hanno i prezzi energetici migliori.

L’Europa, e la sua manifattura in particolare, in questo momento è veramente all’angolo stretta tra la crisi energetica, le divisioni interne e le contraddizioni irrisolte dell’euro, la recessione e una tempesta finanziaria che monta con le politiche restrittive della Fed. Se l’Europa non riesce, in qualche modo, a cambiare il copione i rischi, anche politici, si moltiplicano.

Per quanto tempo l’Europa si può accodare agli alleati facendo finta di non sapere la sua realtà economica?

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