“Pensare alla fase 2 come una ripartenza dopo una sosta in un’area di servizio solo per controllare la pressione delle gomme dà un’immagine rassicurante. Ma è sbagliata: i due mesi di lockdown non hanno fermato la macchina, l’hanno distrutta. Non basta mettere un po’ di liquidità, cioè benzina nel serbatoio, girare la chiave e schiacciare l’acceleratore, visto che siamo su una strada in salita e molto tortuosa. La fase 2 dovrà servire a riparare tutti i pezzi, a fare un po’ di rodaggio, per capire se poi potremo rimetterci in viaggio”. Ne è convinto Paolo Trucco, responsabile del Centre for Risk and Resilience Management of Complex Systems presso la School of Management del Politecnico di Milano. Ma chi ragiona sul fatto che questa sosta forzata e non preventivata ci costringe a guardare la cartina per domandarci: dove stiamo andando? “Purtroppo nessuno – risponde Trucco – e questo vuol dire che non c’è una ricetta per la ripartenza. Dobbiamo invece essere tutti più adattivi nelle politiche, nelle misure e nella loro gradualità, perché sarà la realtà dei fatti a dirci come l’Italia risponderà alla crisi. Il futuro è incerto, si è rotto un sistema, quindi non fossilizziamoci su posizioni ideologiche”. Per esempio? “Abbiamo bisogno di flessibilità del lavoro che non è solo smart working, è anche ricollocazione temporanea di persone da un settore all’altro, così da garantire continuità di impiego e reddito a chi magari sarebbe oggi costretto a stare a casa o in cassa integrazione. Più che navigator, servono politiche attive e matching tra domanda e offerta”.



È proprio arrivato il momento di uscire dal lockdown?

È il momento giusto. Perché non siamo più nelle condizioni di aspettare, non possiamo rimandare oltre, se non a rischio di compromettere alcuni elementi strutturali essenziali del nostro assetto economico e sociale: la capacità di produrre, di mantenere l’occupazione, di tenere l’Italia agganciata alle filiere internazionali. Come per le nostre aziende di componentistica nel settore automotive: arrivate a questo punto, non hanno più solo un problema di liquidità, hanno l’esigenza di non vedersi rimpiazzate da altri fornitori, con il rischio di uscire dal mercato. Lo stesso vale per altri settori ad altissimo tasso di impiego, come il retail: diamo la possibilità di ripartire sperimentando forme e soluzioni nuove nell’interazione con i clienti.



Quanto ci arriviamo preparati?

Poco dal punto di vista della tenuta del sistema sanitario e della salute pubblica, specie al Sud.

E dal punto di vista dell’economia?

Arriviamo preparati sul fronte dell’agilità di risposta delle imprese e del capitale umano, ma in affanno dal punto di vista della disponibilità economica e finanziaria per affrontare dei cambiamenti e dei riassetti ineludibili.

Quali rischi bisognerà evitare in questa fase di uscita dal lockdown?

Il rischio maggiore, da evitare assolutamente, è mettere in conflitto, scaricandolo sulle persone, la dimensione del lavoro e quella della famiglia. Nella gestione dei tempi non si deve cioè causare una tensione, alla lunga insostenibile, all’interno dei nuclei famigliari tra la necessità di tornare a lavorare e l’impossibilità di poter accudire i figli, che non potranno tornare a scuola. Per esempio, è assai probabile che la ripartenza delle imprese possa non prevedere una sosta ad agosto e questo richiederà molta attenzione e cautela nella coerenza complessiva delle misure. Secondo rischio da evitare, operare una selezione dei settori che possono riaprire.



Perché?

La logica dei codici Ateco non funziona, oggi la struttura industriale ha livelli di interconnessione tali che non può essere gestita così. Non possiamo iper-vincolare il sistema, aggiungendo ulteriori elementi di disruption alle filiere oltre a quelli, fortissimi, che già esistono: incertezza e volatilità della domanda e indisponibilità di fornitori perché in altre parti sono ancora in lockdown o perché la catena della logistica a livello internazionale sta soffrendo o addirittura è ferma.

Su quali presupposti si deve basare un’uscita graduale e intelligente dal lockdown?

Vanno individuate le regole operative minime che garantiscano la sicurezza delle persone nei luoghi di lavoro e che traducono in maniera opportuna i criteri epidemiologici di capacità di controllo della diffusione dell’epidemia. E basta. Le imprese devono potersi regolare e avere capacità di azione, a fronte ovviamente di sorveglianza e controlli ma solo sull’attuazione di quelle misure.

Come si può lasciare capacità di azione alle imprese?

Serve un intervento dal punto di vista economico e finanziario, rendendo effettiva, e non solo sulla carta, l’iniezione di liquidità. Consapevoli che parte di questo intervento andrà dispersa perché ci saranno imprese che non saranno in grado di sopravvivere a questa emergenza o impossibilitate a ripartire. Bisognerà poi riservare una quota di risorse per favorire operazioni di equity utili a consolidare alcune filiere strategiche: prestiti di medio-lungo periodo per agevolare ricapitalizzazioni, fusioni o acquisizioni.

Giusto porre limiti e divieti di spostamento fra Regione e Regione?

No. Negare la mobilità inter-regionale almeno nel 40% del nostro territorio e per almeno il 70% del nostro Pil, cioè dalla Toscana in su, renderebbe impossibile alle imprese avere il personale in fabbrica o negli uffici. Perché, per esempio, come accade per migliaia di persone, se uno abita a Novara non può venire a Milano o in Brianza dove lavora? O da Milano non potrà andare nei magazzini logistici di Piacenza? Se non riparte il Nord produttivo, non c’è futuro nemmeno per il Sud.

La fase 2 deve dunque avvenire a livello nazionale?

Assolutamente sì.

Dove sono i maggiori punti critici: Pmi, servizi, grandi infrastrutture, trasporti, turismo, uffici pubblici?

Sanità e trasporti sono i due servizi essenziali messi più sotto pressione. Sui mezzi pubblici, per esempio, anche per l’impatto che avranno le regole di protezione personale si viaggerà al 25% delle capacità. Ma se non ripartono i trasporti sarà difficile riavviare anche l’economia. Poi ci sono turismo e ristorazione, che sono bloccati, e anche le piccole imprese sono una criticità, perché non sappiamo quante sopravvivranno. Infine, il contesto internazionale: la pandemia ha colpito i vari paesi in modo asincrono.

Come si può gestire questa asincronicità senza farsi schiacciare?

Non c’è una ricetta valida per tutti. Ciascun settore e ciascuna azienda dovrà affrontarla. Diciamo che c’è un approccio utile: le imprese dovranno essere agili e adattive, con continuità e frequenza dovranno monitorare i propri mercati e la capacità di intercettare e soddisfare una domanda molto volatile, verificando giorno per giorno la disponibilità e lo stato di salute dei fornitori e della filiera di supporto. La Wto stima per l’Italia che nel 2020 l’export calerà del 32% e l’import del 29%. Numeri drammatici.

Un fattore decisivo, quindi, sarà la resilienza, cioè la capacità di trasformare i rischi in opportunità. Come potrebbe tradursi questa resilienza?

Come ha dimostrato la crisi finanziaria del 2009, che ha intaccato il nostro sistema industriale in maniera diversa dall’emergenza attuale, l’Italia grazie al suo tessuto produttivo e sociale fatto di piccole e medie imprese ha resistito nella fase acuta in maniera migliore e più resiliente rispetto alla Spagna, alla Francia o alla Gran Bretagna. Ma ciò si è poi tradotto in una curva di ripresa più lenta. Assorbiamo di più nel momento massimo di crisi, ma siamo più zavorrati quando si tratta di beneficiare delle opportunità nel momento in cui si riparte.

Secondo lei, riusciremo a rialzarci da questa emergenza?

Non ci riprenderemo certo per la solidità finanziaria né per la robustezza economica. Noi ci rialzeremo per la qualità delle persone e del capitale umano e per la qualità dei rapporti e delle reti sociali, come si è visto molte volte nella nostra storia e come abbiamo visto in questi due mesi di grande prova: non c’è solo il conflitto o la polemica, ma una ricchissima capacità di intrapresa, creatività, solidarietà. E poi, essendo un paese al traino, il fatto che la Germania stia affrontando questa crisi senza grossi impatti dal punto di vista sanitario ed economico è per noi una buona notizia. Ma se non ripartiamo, ora, ci salutano.

(Marco Biscella)

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