Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso giovedì ha dichiarato che occorre “riaprire le miniere” perché l’Italia possiede 16 delle 34 materie prime critiche per la loro “rilevanza nella transizione ecologica e digitale”. I veicoli elettrici e la transizione green hanno bisogno di grandi quantità di metalli come rame, nickel, cobalto, litio, alluminio, titanio, argento, terre rare. Servono per le batterie, per i pannelli solari, per le pompe di calore e per i magneti delle pale eoliche; servono in fretta e in grandi quantità. L’Unione europea, tanto più dopo l’esperienza russa, vuole aumentare la propria indipendenza in un settore che è strategico. Niente è meglio, in questa ottica, di una miniera dentro i confini patri.<
La chiusura delle miniere italiane si è prodotta per un mix di ragioni economiche e ambientali perché l’attività mineraria è estremamente impattante per il territorio. soprattutto se deve competere con quelle dei Paesi in via di sviluppo che hanno a disposizione territori enormi, tendenzialmente poco abitati e che non vanno troppo per il sottile sulle norme ambientali. L’Italia ha una densità abitativa sopra la media europea senza considerare che, a differenza di altri Paesi, è un continuo susseguirsi di montagne e colline. Appena ha potuto si è messa a cercare gas e petrolio e ha chiuso le miniere. Ognuno può informarsi su quante tonnellate di terra e di roccia occorra muovere e su quanti metri cubi di acqua servano per estrarre i metalli dal sottosuolo. Per produrre una tonnellata di litio, di cui il Lazio sarebbe ricco, possono servire anche più di 2 milioni di litri d’acqua. Questo mentre si mette in prima pagina lo scandalo delle perdite degli acquedotti. Per avere la stessa produzione dell’ultima centrale nucleare aperta in Europa, in Finlandia, servono mille pale eoliche e 500 chilometri quadrati di spazio.
Questa rivoluzione verde è strana: non si spaventa di un campo coltivabile ricoperto di pannelli solari, ma pretende la chiusura di un pozzo di gas a qualche chilometro dalle coste; chiude il nucleare, che ha un consumo di suolo per energia prodotta ridicolo, ma lavora per la riapertura delle miniere; vuole reinserire gli orsi nel loro territorio naturale e nel frattempo usa l’arco alpino o appenninico per l’estrazione del titanio o dell’alluminio. Vuole che i fiumi siano liberi di scorrere e che si ripristino acquitrini e paludi, ma scava chilometri per tirare fuori nickel e argento.
È questo quadro che dovrebbe preoccupare gli italiani. Tanto quanto l’apertura di nuovo pozzo di gas, di un nuovo inceneritore o di una centrale nucleare è destinato a scontrarsi con un’opposizione dura tanto facilmente, sotto la spinta della “rivoluzione green”, verranno concessi autorizzazioni che fino a cinque anni fa sarebbero state considerate lunari.
C’è poi un secondo elemento che varrebbe la pena di considerare. Da quanto si scopre una miniera di rame, per esempio, a quando si mette in produzione non servono meno di sette anni. Più si cerca di conciliare l’attività mineraria con l’ambiente, più i tempi si dilatano e i costi salgono. Il passaggio all’elettrico e la fine degli idrocarburi per cinquecento milioni di consumatori europei assolutamente convinti di non perdere, se non in misura marginale, il loro tenore di vita e i loro consumi implica investimenti colossali e una lunga fase di transizione che non si capisce bene come si dovrebbe traguardare soprattutto se, nel frattempo, ci si libera di energia consolidata ed economica. L’attività estrattiva è energivora al massimo. Due decenni di alta inflazione, date queste premesse, sono la scommessa più a porta vuota della storia.
Più passa il tempo, più emerge la mancanza di buon senso della transizione che risponde a un’ideologia che non tiene conto della realtà economica e, nemmeno, di quella ambientale. I conti con la realtà, nel caso specifico, prenderanno la forma di black out, povertà energetica e mancanza di libertà di movimento. Nemmeno avremo la consolazione, anzi, di aver “salvato l’ambiente”.
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