In occasione della riapertura della scuola, il Premier ha detto una cosa sacrosanta, riconoscendo che ai giovani è finora toccato pagare il prezzo più elevato della pandemia. A penalizzarli è stata proprio la chiusura così prolungata delle scuole, benché la didattica sia proseguita su altri canali. La centralità del problema, peraltro, è stata identificata con grande lucidità sia da Mario Draghi, che, al Meeting di Rimini, si è fortemente focalizzato sul futuro dei giovani, sia dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha indicato la conoscenza come indispensabile asset su cui investire, dopo aver osservato come la situazione emergenziale del Paese non dipenda in toto dalla pandemia, ma da una crescita troppo carente sin dagli anni Novanta.
L’associazione Save the Children, in collaborazione con Ipsos, ha recentemente condotto un’interessante indagine sul legame tra Covid-19 e povertà educativa, evidenziando come gli adolescenti siano stati particolarmente colpiti dagli effetti della pandemia: il rischio che il “learning loss“, ossia il mancato apprendimento in campo cognitivo, socio-emozionale e fisico dovuto alla condizione di isolamento abbia effetti devastanti tra i minori, soprattutto appartenenti a contesti svantaggiati, è concreto.
Secondo i dati Istat – citati dal rapporto – uno studente su otto di tutti quelli rimasti a casa (oltre 8,5 milioni) durante il lockdown non aveva accesso a un PC o tablet; un quinto delle famiglie con figli non aveva accesso alla rete internet nelle aree metropolitane (un terzo nei comuni piccoli); il 41,9% delle famiglie italiane vive in condizioni di sovraffollamento, con le difficoltà che possiamo immaginare sul piano scolastico.
Gli effetti della pandemia andranno, quindi, ben al di là del periodo di confinamento: l’Associazione stima che, a livello globale, nei prossimi anni, circa 24 milioni di minori in età scolare saranno costretti ad abbandonare il percorso di studio. All’impoverimento economico causato dalla pandemia un po’ in tutti i settori potrà accompagnarsi un incremento della povertà educativa, già assai diffusa nel nostro Paese: la percentuale di giovani che lasciano presto la scuola è di circa il 14% (dati al 2019); quasi la metà degli adolescenti di 15 anni, che provengono da nuclei familiari appartenenti a ceti sociali più bassi, non raggiunge le competenze minime in matematica (40,6%), in letteratura (42%) e in scienze (38,3%, dati al 2018). Inoltre, l’Italia ha accumulato ritardi negli ultimi anni, rispetto all’Europa: il Paese spende per istruzione e università circa il 4% del Pil, a fronte del 4,6% europeo (dati al 2018).
L’incertezza dominante post-virus si riflette anche sui più giovani: secondo l’indagine, lo stato d’animo prevalente con cui i figli affronteranno il rientro a scuola è l’incertezza (63%), soprattutto tra i più grandi (70% circa dai 12 anni in su), la paura per il 10%, mentre il 27% guarda al rientro al scuola con entusiasmo. Pesano, come già accennato, anche le difficoltà economiche, visto che il 10% dei genitori del campione intervistato (1334 genitori con figli minorenni) ritiene di non potersi permettere l’acquisto di tutti i libri di testo, mentre il 20% ha dichiarato di aver fatto richiesta di sussidi per affrontare i costi relativi all’anno scolastico e quasi un ragazzo su 10 ha variato il programma di studi frequentando una scuola professionale in luogo del liceo desiderato, per aiutare la famiglia a sostenere la probabile crisi dei prossimi anni. Guardando ai più piccoli (0-3 anni), meno della metà dei bambini in Italia frequenta un asilo nido, principalmente sempre per motivi economici, in base ai risultati dell’indagine.
Nel contesto generale, la didattica a distanza, che forse sarà ancora ampiamente utilizzata, ha senz’altro giovato alla prosecuzione dello studio; tuttavia, la perdita di interazione sociale con i propri coetanei ha generato spaesamento, tristezza e noia, spesso “superate” con i vari social media a disposizione. L’assenza di interazione diretta con gli insegnanti, poi, ha incrementato una volta di più la diseguaglianza tra chi è più dotato di facilità nell’apprendimento e chi lo è di meno, venendo a mancare quella condivisione relazionale che è parte integrante di un percorso educativo.
Non da ultimo – aggiungo io rispetto al rapporto citato – non bisogna sottostimare uno degli effetti più insidiosi del virus e del lockdown: quello psichico. Ogni contatto con l’esterno è fonte di possibile contagio e, in alcuni casi, anche di contaminazione culturale; questo induce alcune famiglie, ad esempio, a ritirare i figli dalla scuola, per evitare qualsiasi tipo di “lavaggio del cervello”.
Riaprire la scuola non significa soltanto igienizzarla, prendendo ogni pur giusta precauzione sanitaria; è l’occasione di ripensarla da capo, sfruttando le ingenti risorse che l’Europa metterà a disposizione, per integrare la qualità dell’istruzione con la crescita personale dei nostri ragazzi. Ne va del futuro di tutti.