È un curioso effetto di sospensione, quello che si registra in queste ore. Il decreto “Rilancio”, il provvedimento di 256 articoli e 469 pagine nel quale il governo ha inserito gli aiuti per impedire che il paese sia travolto dalla crisi, non c’è. Non è ancora andato in Gazzetta Ufficiale perché al momento non è stato ancora firmato dal presidente della Repubblica. Nel frattempo è entrato in vigore il decreto riaperture, ma Conte ha fatto slittare l’informativa in Parlamento sulla gestione della fase 2. Essa si terrà solo il giorno successivo alla discussione della mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.
Ieri è stato il giorno della riapertura, resa possibile dall’accordo tra il Governo e le Regioni raggiunto nella notte di domenica dopo un lungo scontro. I presidenti delle Regioni si erano opposti perché il Dpcm attuativo del decreto non recepiva l’intesa raggiunta, con conseguente “caos normativo”.
Sulla gestione dello stato di emergenza da parte del governo Conte abbiamo raccolto l’opinione di Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo. Mangiameli parla di “arroganza nell’esercizio del potere”. “La Costituzione contiene le disposizioni per disciplinare l’emergenza”, ma il governo Conte ha scelto altre strade, spiega il giurista. Confusionarie e pericolose.
La frattura Governo-Regioni è stata ricomposta e le riaperture ci sono state. Nondimeno i problemi sono ancora forti. Perché?
In un ordinamento regionalizzato, penso alla Germania, alla Svizzera, alla stessa Spagna, per rimanere in Europa, i conflitti tra centro e periferia non rasentano mai il tono di rissa.
Allora come si spiega quello che accade in Italia?
Vi sono due ragioni di carattere generale. La prima è una permanente contesa delle competenze, che ha avuto origine con le Regioni speciali (1948), ha proseguito con l’istituzione delle Regioni ordinarie (1970) e anche dopo la modifica del Titolo V del 2001; questa contesa deriva dalla circostanza che lo Stato non ha adeguato, come impone la Costituzione, “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
E la seconda ragione?
È conseguente alla prima: non si sono sviluppate adeguate procedure di leale collaborazione tra Stato e Regioni, e anche le sedi di concertazione previste da disposizioni costituzionali non sono state implementate.
Sabato sera in conferenza stampa presentando il decreto riaperture Conte ha detto che “passata l’emergenza, sarà da valutare la riforma dei rapporti tra Stato e Regioni, soprattutto in casi di emergenza”. Serve una riforma?
Non so interpretare questa esternazione del presidente del Consiglio. Se si pensa ad un nuovo tentativo di centralizzazione dopo quello compiuto da Renzi nel 2016, vuol dire che i politici italiani, nonostante siano ripetutamente puniti, sono persone “dalla dura cervice”. La Costituzione contiene le disposizioni per disciplinare l’emergenza e lo Stato ha anche una buona legislazione sul punto; se i governi rifiutano la Costituzione e la Legge, ai cittadini non resta che dare la testa al muro.
Cosa si può fare a regole vigenti in caso di emergenza?
Il governo può adottare decreti legge, in forza dell’art. 77 Cost., e “può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso (…) di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” (art. 120 Cost.). Lo Stato – solo per citare i poteri più evidenti in una condizione di emergenza – è competente per l’ordine pubblico e la sicurezza, dispone anche dell’esercito, ha il compito di proteggere i confini nazionali e di procedere con le profilassi internazionali (art. 117, comma 2, Cost.). La legge (statale) può stabilire limitazioni in via generale alla libertà di circolazione e soggiorno, per motivi di sanità o di sicurezza (art. 16 Cost.); e le autorità (statali) possono vietare le riunioni in luogo pubblico per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica previsti dalla legge (art. 17 Cost.); la legge statale può obbligare ai trattamenti sanitari, come la quarantena (art. 32 Cost.).
E il Codice della Protezione civile?
Il d.lgs. 1/2018 prevede la competenza statale per tutte le emergenze di un certo peso, localizzate in una parte o in tutto il territorio statale (art. 7, comma 1), e consente la disciplina, “durante lo stato di emergenza di rilievo nazionale, (…) mediante ordinanze, da adottarsi in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione Europea”. Ovviamente, in omaggio al principio di leale collaborazione e al coordinamento delle attività degli altri livelli di governo, “le ordinanze sono emanate acquisita l’intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate” ed è ovvio che, “ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate” (art. 25).
Quali conclusioni trae da tutto questo?
Non si capisce quali altri poteri vorrebbe il Governo centrale. Si tenga conto che anche in caso di guerra – e non è questo il caso – la Costituzione consente alle Camere di conferire al governo solo i “poteri necessari” e non i “pieni poteri”, come era tradizione della legislazione di guerra. Non si può criticare Viktor Orbán e indignarsi per la povera democrazia ungherese e poi, in modo subdolo, praticare di fatto la messa fuori gioco del Parlamento e di ogni potere legale.
Si può dire che l’emergenza pandemica ha messo in evidenza l’inadeguatezza della riforma del Titolo V?
Ogni testo normativo può essere migliorato; e questo vale anche per la Costituzione, che richiederebbe diversi aggiustamenti, ma non certamente quelli che desiderano i governi di turno, per liberarsi le mani e agire con uno standard di controllo non democratico.
Non è una valutazione troppo severa?
Tutti i tentativi di revisione costituzionale, dal disegno semipresidenzialista della Commissione D’Alema (1998) alla riforma del 2005, a quella del 2016 vanno in questa direzione. La riforma del Titolo V è stata l’unica condivisa ed è servita a migliorare lo standard nazionale anche rispetto all’ingresso nella moneta unica. Non sarà perfetta, ma non è certamente inadeguata.
Qual è la sua critica relativa alla gestione dell’emergenza coronavirus?
Di inadeguato, nel caso del Covid-19, c’è stato solo il comportamento degli apparati statali. Il governo, in base agli accordi presi in sede di Oms, avrebbe dovuto stilare un piano anti-pandemico nazionale. In realtà, si è limitato a stendere un documento che rappresenta una specie di linee guida, per di più vecchie e inadeguate, scaricando a valle, sulle Regioni, la stesura del piano stesso. E quando è apparsa la pandemia il governo non ha saputo dove mettere le mani.
Si è trattato di un’emergenza senza precedenti.
Ma non è questo il solo caso in cui questo è accaduto; basti pensare al piano nazionale sui rifiuti, che in realtà è la somma dei piani regionali, perché anche in quel caso il governo rinuncia ad ogni responsabilità, compresa quella dinanzi all’Ue.
Ha ragione Vincenzo De Luca quando afferma che l’intesa non può essere un modo per scaricare le responsabilità sulle Regioni?
Sì. Così, se va bene è merito dello Stato, se va male è tutta colpa delle Regioni. E ha ragione pure Zaia, che denuncia il fatto che da un lato il governo richiede la collaborazione delle Regioni, ma dall’altro sulle Regioni tiene il freno a mano tirato.
Dunque il governo rivendica troppi poteri.
Rivendica i poteri e non rispetta in alcun modo il riparto delle competenze, ma all’atto pratico non fa nulla. È una storia vecchia che è finita ripetutamente davanti alla Corte costituzionale, come nel caso delle grandi opere, degli asili nido, delle centrali elettriche. Tutte attività rivendicate dallo Stato e mai realizzate. A che serve il potere se non lo si esercita e se non si realizzano le politiche pubbliche?
In questa emergenza il governo ha prodotto una quantità di atti normativi che è stata variamente contestata nei tempi e nelle modalità. Non si capisce se questo stato di cose è il prodotto inevitabile di una situazione eccezionale o se invece è espressione di malgoverno. Lei cosa dice?
In realtà, il decreto legge n. 6 del 2020 ha dato luogo a una fuga dal sistema legale. In modo assolutamente arbitrario e fuori dai poteri costituzionali, con quel decreto legge si è istituita una fonte concorrente con la legge che non ha forza di legge e che non segue il regime della legge: il Dpcm. Si tratta di un atto non emanato dal Capo dello Stato, di cui il Parlamento non avrà mai contezza, adottato senza raccordo governativo, cioè senza deliberazione del Consiglio dei ministri, e senza intesa o parere delle Regioni. Il cittadino ha pochissime tutele rispetto a questi atti e non può certamente chiedere la tutela innanzi alla Corte costituzionale.
Perché fa questo rilievo?
In Germania la chiusura delle Chiese è finita davanti alla Corte costituzionale, che ha accertato la violazione della libertà religiosa e ha posto dei temperamenti al governo tedesco; da noi, Papa Francesco ha dovuto fare diverse omelie sull’importanza dei riti con i fedeli e la Cei ha dovuto fare attività diplomatica. Ovviamente si poteva fare diversamente come ho già detto, ma non si tratta di malgoverno.
Come definirebbe allora ciò che è accaduto?
Si tratta di una certa arroganza nell’esercizio del potere, che è qualcosa che si affaccia ormai con una certa frequenza: una volta con il governo tecnico; una volta, con il grande “rottamatore”; e, una volta ancora, con la proclamazione dell’assunto tra gli eletti. Le costituzioni servono a proteggere i cittadini dall’abuso del potere e i governi non possono essere intolleranti alle regole costituzionali. Purtroppo l’emergenza fornisce una scusa all’arroganza del potere; come si dice, la necessità è la madre non solo dell’invenzione ma anche della tirannia.
Il decreto Rilancio viene considerato tardivo e inefficace. Quali sono le sue osservazioni, a cominciare dalla mole dell’articolato?
Si tratta di un atto normativo costruito male, secondo una tecnica disastrosa, che realizzerà poco o niente, anche se alla fine il debito pubblico crescerà ancora e tanto.
Ma come si è potuti arrivare a una cosa del genere?
Ogni ministero ha un ufficio legislativo che ha preparato quanto ritenuto utile, in termini di norme, per sé stesso e ha mandato questo prodotto al Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, che li riordina in un unico atto. Di qui la lunghezza del decreto e dei singoli articoli.
Per non parlare della difficoltà di comprensione.
Sì, perché il linguaggio è il trionfo del burocratese, con rinvii ad altri atti normativi e articoli, il più delle volte per modificare frammenti di disposizioni, per cui occorre mettere insieme la vecchia e la nuova normativa per comprendere quale sia la novità legislativa. Inoltre, siamo appena all’inizio.
Che cosa intende dire?
Il governo ha già pronti i suoi emendamenti. La maggioranza presenterà i suoi emendamenti e l’opposizione altri emendamenti ancora. Finirà quasi sicuramente con la questione di fiducia e con un “canguro” che assicuri gli emendamenti degli apparati ministeriali e qualche emendamento raccomandato della maggioranza. Quando sarà convertito il decreto legge, tutte le misure previste richiederanno una serie infinita di atti di esecuzione; sicché ai cittadini, se arriverà qualcosa, arriverà quando probabilmente sarà molto tardi.
Perché siamo a questo punto?
Perché non c’è una strategia politica contro la crisi, non c’è chiarezza sui comandi ai cittadini e alle altre istituzioni. Ditemi voi cosa possono fare i cittadini.
Il governo ha promesso un altro decreto legge per semplificare i rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione. Non si poteva cominciare subito?
Infatti bastava prevedere poche misure dirette. In Germania, in Svizzera, negli Stati Uniti, ai cittadini che pagano le tasse attraverso i conti correnti bancari, ovviamente nell’ambito delle previsioni legislative, i contributi a fondo perduto sono arrivati direttamente sul conto.
Il governo sembra usare impropriamente alcuni istituti del nostro stato sociale. Può dirci qualche parola su questo? Cominciamo dall’Inps.
Si sposa con quello che ho appena detto. Che bisogno c’era per i contribuenti a basso reddito di richiedere l’iscrizione all’Inps, per poi scoprire che il sistema informatico dell’istituto è un colabrodo. In ogni caso non sono misure di previdenza, ma di assistenza.
Vale a dire?
In via di principio l’Inps non dovrebbe entrarci. Non serve ricordare che uno dei problemi italiani è proprio questo, che misure di assistenza e di previdenza sono messe insieme e questo serve solo a far sparire i soldi dei cittadini. Perché l’assistenza si finanzia con le imposte e la previdenza con i contributi, ma nella gestione concreta non c’è chiarezza.
Anche l’Inail ha un ruolo importante.
Vale lo stesso discorso. Come si fa a trattare il Covid-19 come se fosse un infortunio sul lavoro? Non si può adoperare una procedura analoga a quella per la violazione delle disposizioni sulla sicurezza, che è oggettivamente penalizzante per il datore di lavoro e che, alla fine, danneggia il lavoratore.
E la Protezione civile?
Nel caso della Protezione civile non c’è un uso improprio. Solo che la Protezione civile non era preparata, non aveva un piano anti-pandemia e, in buona parte è stata pure esautorata dai suoi compiti istituzionali.
È ormai evidente che adesso la prima emergenza del paese è il dirigismo burocratico, unitamente a quella “fuga dal sistema legale” le cui responsabilità sono da imputare al governo. Qual è il suo scenario?
Occorrerà tempo prima che si ripristino tutte le procedure legali e costituzionali. Sarà un arco di tempo in cui il problema non sarà più il Covid-19, ma gli apparati di governo, che saranno stanchi e confusi, con politici non in grado di guidare la fase 2 o 3, perché tutte queste si giocheranno nei territori, dove lo Stato centrale può produrre solo problemi.
Come andrà a finire?
Provate a commissionare un sondaggio chiedendo se i cittadini preferiscono i 24 ministri del governo attuale, compreso Giuseppe Conte, o un ipotetico governo bipartisan composto dai 21 presidenti delle Regioni e delle Province autonome, anche senza Mario Draghi. Non escludo un risultato a sorpresa.
(Federico Ferraù)