L’ipocrisia dei leader europei è finalmente emersa con chiarezza, ma pochi sembrano essersene resi conto. Dopo la fallimentare riconversione delle auto diesel e benzina in elettriche per “salvare il pianeta”, gli stessi governi sono ora pronti a riconvertire nuovamente le fabbriche, ma questa volta per costruire carri armati e mezzi blindati. Un paradosso evidente, che dovrebbe almeno suscitare qualche dubbio in coloro che, negli ultimi anni, hanno lanciato allarmi disperati sui cambiamenti climatici e sull’urgenza di politiche green per scongiurare l’estinzione del nostro pianeta.
Improvvisamente, nelle sedi istituzionali dell’Unione Europea, i discorsi sulle energie rinnovabili, sull’economia circolare e sulla riduzione delle emissioni di CO2 sembrano essersi volatilizzati. Al loro posto dominano ora discussioni su riarmo, produzione di missili, blindati e bombe.
In questo scenario, l’Italia appare paradossalmente in una posizione particolarmente favorevole grazie alla presenza sul territorio nazionale di aziende leader nella produzione di materiale bellico avanzato. Tra queste emergono realtà specializzate nella costruzione di carri armati di ultima generazione, come Iveco Defence Vehicles, Oto Melara e Leonardo, che si preparano ad accedere a una fetta significativa degli oltre 800 miliardi di euro recentemente stanziati per il riarmo europeo.
Queste aziende, già apprezzate sul mercato internazionale per l’efficienza, la tecnologia avanzata e la qualità dei loro prodotti, avranno enormi benefici economici in termini di occupazione, innovazione tecnologica e crescita del PIL nazionale.
Ma l’Italia non è l’unica nazione europea pronta a sfruttare questa opportunità economica derivante dalla nuova corsa agli armamenti. In Germania, aziende come Rheinmetall e Krauss-Maffei Wegmann sono già in piena attività per incrementare la produzione di carri armati Leopard 2, uno dei modelli più richiesti dai governi europei e NATO.
Anche la Francia, con il consorzio Nexter, sta aumentando la capacità produttiva del carro armato Leclerc, mentre nel Regno Unito BAE Systems si sta preparando a rilanciare massicciamente la produzione del Challenger 3. Persino la Polonia sta beneficiando di ingenti investimenti nella propria industria bellica, puntando sulla produzione congiunta con la Sud Corea del moderno carro armato K2 Black Panther.
Dal punto di vista strettamente economico, dunque, questo cambio di direzione potrebbe apparire vantaggioso per molte economie europee, Italia inclusa. La produzione bellica ha infatti da sempre rappresentato una leva potente per rilanciare l’economia, creare nuovi posti di lavoro e garantire la supremazia tecnologica delle nazioni coinvolte. Tuttavia, questa evidente svolta stride fortemente con l’immagine pubblica che l’Europa ha cercato di proiettare negli ultimi decenni, ovvero quella di un continente pacifico, sensibile all’ambiente e orientato verso un futuro sostenibile.
È evidente dunque il paradosso morale e politico che emerge da questa situazione. Dopo anni di retorica ecologista, di politiche ambientali stringenti e costose riconversioni industriali, gli stessi leader europei si ritrovano ora ad applaudire entusiasti al riarmo del continente. Questa contraddizione dovrebbe indurre i cittadini a riflettere sulle reali priorità delle loro classi dirigenti e sulla sincerità delle politiche “green” promosse con tanto fervore fino a pochi mesi fa.
Nel frattempo, sulla scena internazionale, assistiamo a dinamiche contraddittorie che mettono ancora più a nudo l’ipocrisia e gli interessi economici dietro le retoriche politiche ufficiali. Donald Trump, per anni raffigurato dai media occidentali come l’incarnazione del guerrafondaio, oggi che tenta di mediare un negoziato di pace viene paradossalmente accusato di perseguire una pace “ingiusta” e di muoversi spinto da interessi economici, come l’accaparramento delle preziose terre rare ucraine.
Questa narrazione trova espressione simbolica in una recente copertina provocatoria del settimanale tedesco Der Spiegel, che ha ritratto l’ex presidente statunitense sotto il titolo eloquente di “Trumpistan”. L’immagine, volutamente provocatoria, punta a demonizzare preventivamente ogni sua possibile mossa diplomatica, suggerendo un presunto disegno personale di Trump, anziché una sincera volontà di risolvere il conflitto. La copertina ha generato polemiche e riflessioni sulla capacità dei media di influenzare la percezione pubblica e di orientare l’opinione internazionale con rappresentazioni semplicistiche e polarizzanti.
Ma l’ex presidente americano non è certo l’unico protagonista internazionale ad agire mosso da interessi strategici ed economici. Perlomeno non si nasconde dietro una facciata di altruismo. Anche la Gran Bretagna, che ufficialmente sostiene senza riserve l’Ucraina, ha già stretto accordi molto precisi con il presidente ucraino Zelensky per garantirsi un accesso privilegiato alle risorse naturali del Paese nella fase postbellica.
Londra punta chiaramente a sfruttare questa partnership strategica per assicurarsi il controllo sui giacimenti minerari e soprattutto sulle terre rare ucraine, risorse fondamentali per la transizione energetica e le tecnologie avanzate del prossimo futuro. Questi accordi, rimasti discretamente in secondo piano nei media internazionali, sono tuttavia estremamente indicativi delle vere poste in gioco dietro le dichiarazioni pubbliche di solidarietà e sostegno.
Parallelamente, diversi altri Paesi europei si muovono con crescente frenesia per assicurarsi partecipazioni vantaggiose nella futura ricostruzione dell’Ucraina. Nonostante il conflitto sia ben lontano dal concludersi, i tavoli degli appalti miliardari sono già stati preparati, e nessuno vuole rimanere escluso dalla spartizione della torta economica che si aprirà alla fine delle ostilità.
In questo quadro di cinismo e competizione economica mascherati da solidarietà internazionale, la presenza di Trump sulla scena diplomatica rappresenta evidentemente un intralcio inatteso per chi aveva già calcolato profitti e vantaggi strategici. La frustrazione provocata da questa interferenza ha generato la necessità di screditare pubblicamente qualsiasi iniziativa negoziale, anche a costo di perpetuare il conflitto.
Tale dinamica evidenzia come ancora una volta la narrazione geopolitica internazionale venga rappresentata con una semplicità disarmante, basata sulla contrapposizione fra buoni e cattivi, eroi e nemici. È una narrazione infantile, certamente, ma tremendamente efficace nell’orientare opinioni pubbliche poco inclini a riconoscere che dietro l’apparente difesa di principi etici e ambientalisti si celano soprattutto interessi economici.
Così, anziché favorire una pace reale, queste strategie rischiano di alimentare ulteriori tensioni, nuove guerre e inevitabili contraddizioni, sacrificando il benessere delle popolazioni alle logiche geopolitiche e finanziarie.
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