Per Mario Draghi “l’esempio della Svezia, che ha un settore tecnologico che è più del doppio produttivo della media europea, dimostra che un forte modello sociale e il progresso tecnologico non sono solamente compatibili ma anche autorinforzanti quando il focus è sulla riqualificazione e sulle competenze”.



La Svezia compare in un vecchio articolo del New York Times, firmato dal premio Nobel Krugman, del 2015. Nell’articolo si avanzavano dubbi sulla tesi che “i costi di breve termine della rigidità (dell’euro) fossero più che compensati dai benefici di una maggiore integrazione”. Krugman si chiedeva quale fosse l’evidenza di questa pretesa. Si paragonava allora l’andamento economico svedese con quello della Finlandia, due Paesi confinanti e simili, suggerendo che la flessibilità della Svezia, fuori dall’euro, le avesse permesso di riprendersi prima e meglio del Paese confinante invece costretto dentro la valuta comune. Krugman in quel pezzo scriveva anche “quello che è accaduto a marzo all’euro è stato che le élite europee, innamorate del simbolismo della moneta unica, hanno chiuso le menti agli avvertimenti che l’unione monetaria, diversamente dalla caduta delle barriere commerciali, è stata nella migliore delle ipotesi ambigua nella sua logica economica e, senza dubbio, perfino ex-ante, una pessima idea”. Da metà 2014 a marzo 2015, per la cronaca, l’euro ha perso il 30% contro il dollaro.



I difetti di costruzione dell’euro non sono un mistero, ma sono stati in qualche modo mascherati da un periodo lungo di stabilità e globalizzazione dei commerci in cui i Paesi membri hanno deciso che rimanere dentro e accettare le regole fosse meglio di un salto nel vuoto. Additare la Svezia a esempio per il resto dell’Europa induce inevitabilmente a pensare alla particolare posizione del Paese scandinavo dentro l’Unione ma fuori dall’euro. Dal 2015 a oggi è cambiato tutto: l’Europa ha perso le forniture di gas russe, l’Ucraina è in guerra, il Medio Oriente è un fattore di rischio, la guerra commerciale è alle battute iniziali, ma la strada è segnata e i commerci globali si ristrutturano con catene di fornitura più corte, meno efficienti ma più “sicure”. L’euro è rimasto quello del 2015 con tutti i suoi difetti. La svalutazione del cambio non è la panacea di tutti i mali ma può essere uno strumento di flessibilità decisivo.



Oggi l’Europa è alle prese con due “spread”. La Francia è al centro dell’attenzione degli investitori preoccupati che possa emergere una maggioranza anti-europea. Lo spread francese è ai massimi dal 2012 e ormai con cadenza giornaliera si leggono articoli in cui si evidenza lo stato dei conti pubblici di Parigi, peggiori di quelli italiani, spagnoli o portoghesi. È così dal 2012, ma oggi quegli stessi problemi “finanziari” della Francia si collocano in un quadro politico diverso. Il secondo spread è quello dei prezzi dell’elettricità che variano, a seconda dei Paesi, anche di cinque volte. L’euro è una rigidità più costosa del 2015 o del post-Lehman. Un Paese con bassi prezzi dell’elettricità, e quindi potenzialmente poca inflazione e sistema produttivo in espansione, condivide la stessa valuta di un Paese con alti prezzi dell’elettricità e un sistema produttivo schiacciato da costi insostenibili.

Oggi, la priorità dentro l’euro è tenere bassa l’inflazione per aprire la strada a tagli dei tassi oppure per evitare ulteriori rialzi. Tenere bassi i salari è un mezzo per raggiungere questo fine. Ma non tutti i Paesi sono nella stessa situazione. La Spagna, per esempio, potrebbe decidere che fuori dall’euro e con i prezzi dell’elettricità compressi, perfino a zero in molte ore della giornata, ci possa essere più crescita industriale. La Francia ha i conti pubblici disastrati, ma, a differenza della Germania, ha il nucleare oltre che un esercito; non sono differenze banali a differenza del 2009 o del 2015.

Più lo scenario esterno all’euro muta in senso opposto a quello degli ultimi 30 anni, più l’euro diventa una costrizione e un elemento di rigidità costoso. Gli shock mettono sotto pressione i difetti di costruzione dell’euro e lo shock del 2022, con l’invasione dell’Ucraina, è il più serio dalla sua fondazione. Si potrebbe concludere che serva, a questo punto, risolvere quei difetti creando uno Stato “vero”. Il problema è che per completare questa trasformazione serve una generazione, pensiamo solo ai sistemi energetici, mentre la pressione monta di mese in mese. Si potrebbe concludere, alternativamente, che per salvare l’Europa serva mettere mano all’euro prima che la pressione diventi insostenibile. Intanto la Svezia è un modello assunto ad esempio per il resto del continente.

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