Quanta vita nella vita di Riccardo. Senza far retorica, se c’è una cosa che ha contrassegnato l’avventura umana di Riccardo Bonacina, morto ieri all’età di 70 anni, è stata proprio la sua apertura incondizionata alla vita, al punto di aver dato questo nome al giornale e all’avventura editoriale, un’avventura davvero unica, che ha fondato nel 1994 e guidato fino a poco tempo fa. C’è un fattore importante per capire una persona come Riccardo: veniva dal teatro, credeva nel teatro come luogo in cui l’umano trovava piena e libera rappresentazione. Luogo necessario alla vita, per stare sempre a quella parola chiave. Il teatro è anche il luogo del coraggio, dove ci si mette in gioco, con la parola e anche con il corpo. E il suo modo di fare giornalismo è sempre stato così, appassionato, ogni volta a diretto contatto con le cose, senza schemi, senza mai accondiscendenza verso qualsiasi moda.
Un giornalismo sulla pelle della realtà, nella convinzione che gli era stata trasmessa nell’amicizia con Giovanni Testori. “Basta amare la realtà sempre e in tutti i modi, fuggite le astrazioni, fate parlare la realtà, la vita, cercatela lì la parola, fatela scaturire da lì”: nelle parole di Testori aveva trovato l’orizzonte del suo lavoro, ribadito anche nel bellissimo messaggio che ha registrato a ottobre in occasione dei 30 anni di Vita.
Riccardo era bravissimo a compulsare le notizie, quando le notizie toccavano le fibre vere della vita. Era accaduto anche in quel maggio 1978, quando, dopo aver letto sul Corriere un articolo del tutto imprevisto sul caso Moro, si era dato da fare, coinvolgendo nell’impresa alcuni amici, per andare a bussare alla porta del suo autore. E così suonò al campanello di via Brera 8 dove era lo studio di Testori. Da quella sua intraprendenza è nata poi una storia che non ha ancora smesso di dare frutti. Testori uomo di teatro, ma anche uomo che metteva in campo un’idea di giornalismo diverso, capace di incrociare i fatti della cronaca con le domande che la vita ogni istante suscita.
Su quell’onda era nato Il Sabato, avventura giornalistica alla quale Riccardo partecipò negli anni 80; e poi era nata l’altra avventura, questa volta sul fronte del teatro, quella della Compagnia degli Incamminati, con Emanuele Banterle, Luca Doninelli e Franco Branciaroli. Tutte avventure incoraggiate con convinzione, benevolenza e curiosità da don Giussani.
Dunque ancora giornalismo e teatro che si muovevano all’unisono nel far vibrare, ciascuno con il proprio linguaggio, le corde più vere e profonde dell’esistenza. Riccardo era lì, sempre allineato con l’uno e con l’altro, nella convinzione che il teatro costringesse il giornalismo ad una serietà rispetto al valore e alla responsabilità della parola, e il giornalismo chiamasse il teatro a misurarsi con l’urgenza della vita. A questo proposito, appena qualche giorno fa, dialogando con noi amici aveva citato alcune righe dalla Vita che ti diedi di Pirandello. È una battuta della protagonista Donn’Anna Luna: “Ah mio Dio, non resisto più; fammi piegare i ginocchi!”. E poi aveva commentato: “Non c’è niente di più umano di quel piegare i ginocchi. Chi non ha provato questa esperienza del non bastare a se stesso e di aver bisogno di aiuto, dice Pirandello, non è compiutamente uomo”. Nel bagaglio professionale e umano di Riccardo, passione e coscienza del limite andavano sempre di pari passo e le certezze erano sempre attraversate da domande.
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