Riccardo Muti, direttore d’orchestra che proprio oggi festeggia il suo compleanno numero 80, ha concesso un’intervista al quotidiano “Il Mattino” nella quale ha raccontato di sentirsi totalmente napoletano, pur essendo nato a Napoli “per caso”: “Mia madre Gilda, da Molfetta, dove mio padre era medico e viveva la nostra famiglia, giunto il momento correva a Napoli per partorire sotto il Vesuvio, nella sua città, dicendo poi a noi figli che se avessimo girato il mondo dicendo che giungevamo dal capoluogo campano, tutti ci avrebbero rispettato”.



Muti si è detto orgoglioso di essere nato nella città partenopea, nonostante questa venga spesso abbinata a fenomeni negativi, come la camorra e la violenza. Quindici giorni dopo essere venuto alla luce, però, il musicista fu riportato a Molfetta, dove crebbe, tornando in Campania ogni estate con la sua famiglia. In riferimento a un grande interprete della canzone locale, Caruso, il Maestro ha asserito che “il suo non era un urlo sguaiato. Lui aveva Napoli nel sangue, il canto era passione pura, nostalgia. La sua voce era il golfo che brillava alla luce del sole”.



RICCARDO MUTI: “LA CITTÀ DI NAPOLI NON SI PIEGHI ALLO STRANIERO”

Nel prosieguo della sua chiacchierata con i colleghi de “Il Mattino”, Riccardo Muti ha evidenziato come la città di Napoli abbia non soltanto un illustre passato, fatto di arte e meraviglia, ma anche un radioso presente “e mai come in questo momento è importante ricordarlo, perché bisogna mettere in campo le forze migliori e uscire dal provincialismo stupido che tende a farci piegare il ginocchio allo straniero.

Quando gli si fa notare che nessuno è profeta in patria, Muti si riconosce nel celebre aforisma, in quanto gran parte della sua carriera si è svolta fuori dall’Italia, ma tiene a sottolineare che lui è “figlio di quella napoletanità tosta e rigorosa di mia madre, della scuola severa dei miei insegnanti. Grazie agli indottrinamenti napoletani di base ho potuto confrontarmi con le grandi accademia d’Europa e degli Stati Uniti d’America. Avevamo aule austere, sede di paglia e una lampadina che pendeva dal soffitto, ma tanta cultura”.