Uno sondaggio della Swg segnala che il 51 per cento degli italiani – la rilevazione è di una settimana fa – teme di perdere il posto di lavoro o comunque il reddito. Si tratta della maggioranza assoluta degli intervistati. Un dato che dovrebbe far riflettere nell’approntare le misure di contrasto ai danni da coronavirus.



Danni per salute, certo, e per tante famiglie che vedono cadere i propri cari sotto i colpi del morbo che, quando prende in forma grave, non perdona. Ma anche danni economici che rischiano di segnare così profondamente il Paese da far misurare in anni i tempi di recupero con la prospettiva di nuove dolorose povertà.



Ecco perché accanto ai provvedimenti che servono a sconfiggere la patologia che sta imperversando in tutto il mondo – e che da noi si è presentata prima e con particolare intensità – occorre a tutti i costi adottare iniziative che riducano al minimo l’impatto sulle attività produttive dalle quali dipende il nostro benessere.

È un gesto di responsabilità che sconta necessariamente incomprensioni al limite dell’ingratitudine: com’è possibile pensare al dio mercato mentre la gente muore? E in effetti ci vuole molta lucidità e consapevolezza delle proprie ragioni per superare il livello di critiche che assumono spesso toni aspri.



Eppure, se il 51 per cento degli italiani comincia a preoccuparsi del proprio futuro lavorativo vuol dire che il problema esiste. E colpisce la sensibilità di milioni di persone che comprendono come sia pericoloso per il proprio avvenire sommare un’emergenza a un’altra. Non a caso si temono gli effetti di una guerra perduta.

E allora non c’è più tempo da perdere. Occorre apprestare subito (oggi, domani) le azioni che servono a difendere il lavoro e i luoghi del lavoro – le fabbriche e le imprese di ogni dimensione – perché non ci si ritrovi tra qualche mese ad aver debellato il male, come tutti ci auguriamo, ritrovandoci disoccupati e smarriti.

Va in questa direzione il documento predisposto da Confindustria e consegnato questo fine settimana a Governo e forze politiche perché prendano coscienza delle difficoltà nelle quali si sta dibattendo la comunità cui è demandato il compito di realizzare il reddito per effetto del quale possiamo vivere.

Industria e commercio, studi professionali, tutti coloro che non vivono di stipendio (ma di questo passo nessuno potrà sentirsi al sicuro), semplicemente non stanno operando – e quindi incassando – già da diverse settimane. E le prossime si presentano peggiori. Restano i costi, svaniscono i guadagni. E allora ci vuole molto di più del decreto cura Italia. Occorrono iniziative capaci di alleviare qui e adesso le pene di chi si trova stretto tra le esigenze di sicurezza imposte dalla pandemia e i bilanci aziendali che soffrono: entrate che svaniscono; dipendenti, fornitori e tasse da pagare.

Tra le proposte: sospensione immediata per tutte le imprese dei versamenti fiscali e contributivi, cassa integrazione erogata direttamente dall’Inps, rafforzamento del Fondo di garanzia per assicurare la liquidità necessaria a non chiudere con prestiti da ripagare in trent’anni. E, naturalmente, un robusto plafond d’investimenti pubblici in infrastrutture con risorse europee, da reperire con emissione di Eurobond, da sommare a quelle nazionali come parte essenziale di un piano anticiclico che con coraggio e lungimiranza ci aiuti a uscire vivi, in tutti i sensi, dalla terribile esperienza.

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori