Gli ho lasciato sulla segreteria telefonica un messaggio: “Ciao Peppino, non ti dimenticherò mai”. Da tempo non ci sentivamo al telefono, per un’intervista sul Sussidiario o anche per scambiare, con amicizia e un po’ di nostalgia, le nostre idee e le nostre reciproche analisi sulla situazione politica.



In fondo, eravamo legati da tempo, tutti e due orfani, ciascuno con la propria particolare storia, del mondo della sinistra, di una cultura e di una politica che sono scomparse, si sono perdute, sono quasi irrise e rabbiosamente cancellate, anche con un complesso di inferiorità, mascherato dal suo contrario, in modo irritante. Di tutto questo entrambi avevamo una profonda sofferenza.



Questo non riduceva un rapporto umano profondo. Sto cercando nella mia posta elettronica una lettera di auguri, per me e mio figlio, di qualche anno fa. Alla fine la troverò e sarà il ricordo più bello che mantengo di Peppino Caldarola, morto, dopo una breve malattia, il 21 settembre, l’altro giorno.

Lo avevo visto, con il viso molto provato, in televisione forse una decina di giorni fa. Ma malgrado la stanchezza che mostrava, in uno di questi talk-show che fanno morire dal ridere per confusione e ignoranza, spaventosa e dilagante, Peppino Caldarola disse poche parole che erano le uniche di buon senso e mostravano il segno indelebile del giornalista politico e del politico di razza che è innanzitutto un bravo analista, un preciso e documentato storico e un uomo che tentava di avere una visione in un mondo di ciechi o falsamente interessati allo sviluppo democratico della società.



Nato a Bari nel 1946, Caldarola dal 1968 al 1972 lavora come redattore in una delle più prestigiose case editrici italiane, la Laterza. Ha già una grande cultura e un grande interesse, con uno sguardo vigile sulla realtà che in quella casa editrice, a fianco del direttore editoriale, Enrico Mistretta, coltiva e affina sempre di più.

In quegli stessi anni il giovane Peppino aderisce alla Federazione giovanile dello Psiup, il Partito di unità proletaria, la sinistra socialista che poi confluirà con il Pci, dove nel 1977 diventa segretario cittadino di Bari.

Caldarola era un giovane, come tanti in quel periodo, innamorato della politica, della storia, del giornalismo, del dibattito economico. Un classico “quadro”, così come si diceva allora, di una futura classe dirigente che doveva fare i calcoli con un mondo in profondo cambiamento, soprattutto con la caduta del Muro di Berlino, il fallimento del comunismo e la riscoperta di una prassi riformista di scrupolosa sinistra che doveva restare una “strada maestra”, per usare una metafora di Filippo Turati.

Non era facile, dopo il crollo del comunismo, riconoscere gli errori, ricostruire una sinistra credibile e protagonista della vita politica italiana. Peppino Caldarola si impegnò, con l’orgoglio e la solita passione, mantenendo sempre il tratto del dialogo aperto, della voglia di conoscere, di misurarsi con coraggio e con la sensibilità e il rispetto anche con chi stava nella sinistra su posizioni differenti.

Con questo suo tratto caratteristico di fondo, Caldarola diventa prima vicedirettore di Rinascita, la rivista storica più prestigiosa del vecchio Pci, che ha già cambiato nome. Poi passa a essere direttore di Italiaradio, infine il grande salto fino al 2000, come direttore dell’Unità. Ma la carriera di Peppino non è finita e per chi lo conosce sembra incarnare quasi una speranza di buon senso trovato in quell’ex partito che fu un’illusione sbagliata per molti.

Nel 2001, Caldarola è nominato deputato nella lista dei Democratici di sinistra. Nel 2006 viene riconfermato nella lista dell’Ulivo. Ricopre incarichi prestigiosi, tra l’altro quello di presidente dell’Associazione parlamentare di amicizia con Israele.

Peppino resta sempre un uomo dalla schiena diritta.

A un certo punto di una grande carriera politica, Caldarola lascia i Ds nel marzo del 2007, alla vigilia del congresso di scioglimento del partito, ponendosi in una posizione critica nella fase costituente del Partito democratico, sul versante della laicità e della mancata collocazione nel Partito socialista europeo.

Non finisce qui, perché Caldarola prima aderisce al Pd quando Walter Veltroni diventa segretario, ma poi lo abbandona quando il Pd fa l’alleanza elettorale con il pm “principe del manipulitismo”, Antonio Di Pietro.

Qui comincia un’altra fase della vita di Peppino Caldarola, quella dell’uomo di sinistra riformista, fiero della sua lunga storia, che si pone come testimone critico della nuova politica italiana, sia nel suo complesso sia nella stessa sinistra. Scrive una testimonianza importante in un libro intervista con Emanuele Macaluso: Politicamente s/corretto. Quindi collabora con Il Riformista, diventa direttore di ItalianiEuropei, scrive su Formiche e su Lettera43.

Proprio su Lettera43, il 22 novembre 2018 scrive una lettera sofferta, dove spiega tutta la sua amarezza per l’attuale fase della politica italiana: “La politica di oggi è fatta di energumeni. Bisogna scrivere usando il loro stesso linguaggio. Non ne sono capace”. Aggiungeva: “Chi dovesse leggere in queste mie parole non le dimissioni dalla scrittura ma dall’essere un militante di sinistra che farà il suo dovere sempre, sbaglierebbe”.

In tutto questo, Peppino non nascondeva il suo pessimismo per il futuro del Paese. In una lunga telefonata del 2015, mi aveva detto in modo sconfortato: “Ci siamo resi conto troppo tardi che in questo paese ha vinto il travaglismo e noi abbiamo reagito tardi e male”.

Ciao ancora Peppino, e che la terra ti sia lieve, come si diceva una volta, quando eravamo giovani.