È, ancora una volta, un termine anglosassone ad attirare l’attenzione; un universo formato di migliaia di persone, quello dei lavoratori su piattaforma, i platform workers d’oltreoceano, meglio noti come riders. Si tratterebbe di oltre 210mila lavoratori in Italia, stando a uno studio recente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), di cui il 42% senza contratto.
Vero è che la piattaforma consente l’incontro diretto tra prestatore e fruitore del servizio, realizzando un miglioramento di quest’ultimo con notevole riduzione del costo: un vantaggio per il fruitore che, magari, ha la possibilità di reperire prontamente un operatore qualificato per il servizio di cui necessita o per la consegna dei pasti a domicilio, just in time. Al tempo stesso non può negarsi, però, come il nostro ordinamento presenti dei vuoti normativi, come ha recentemente affermato l’economista Francesco Pastore all’indomani di un convegno sulla gig economy presso la sede del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef).
Sono, volendo semplificare al massimo, almeno due gli interrogativi a cui bisogna cercare di dare una risposta, con ricadute significative in termini di previdenza sociale. Il primo è il vulnus in termini di tutele e inquadramento giuridico a cui non sono immuni i riders, alla pari di tutto lo stuolo di “lavoratori agili”, tanto da determinare un’inversione di rotta, complice la tecnologia, rispetto alle tradizionali nozioni di lavoro, contratto, impresa; al punto di arrivare a mettere in discussione la nozione classica di subordinazione, come suggerisce il professor Michele Tiraboschi, o giungere persino all’elaborazione di una nozione di subordinazione allargata o condivisa dalle parti, come Giuseppe Santoro-Passarelli (La funzione del diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., n. 3/2018, 348).
Il secondo è il sistema previdenziale e le soluzioni che potranno prospettarsi, stando all’analisi del professor Pastore, sono di due ordini. Una prima – considerando che si tratta di persone che lavorano per un numero esiguo di settimane all’anno, per evitare di arrivare a fine carriera con una pensione poco più che irrisoria – potrebbe risolversi con l’opzione dei contributi figurativi, accreditati senza alcun onere a carico del lavoratore, ma con significativi esborsi da parte dello Stato nel corso del tempo. La seconda soluzione potrebbe, allora, essere rappresentata dalla pensione minima, a prescindere dalla contribuzione versata. Non si può escludere, in entrambi i casi, che possa essere disincentivato il versamento dei contributi, con danni ancora maggiori a carico della fiscalità generale e della previdenza sociale.
Quello che è emerso nel corso della presentazione dei risultati dello studio che l’Inapp sta conducendo di concerto con il Mef e l’Università La Sapienza di Roma con il patrocinio della Commissione europea è la necessità di monitorare la frontiera della gig economy. L’Osservatorio per il monitoraggio e la valutazione delle nuove norme, istituito al ministero del Lavoro, è indice della complessità del fenomeno. A questo si aggiunga il difficile inquadramento secondo cui la necessità e urgenza in ordine alla risoluzione delle crisi aziendali sono state tali da portare alla luce il Dl 101/2019; non medesima sorte è stata riservata al lavoro tramite piattaforme digitali o, più precisamente lavoro digitalmente intermediato, consistente “in attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano”, propriamente i riders, contenute nel Dlgs 81/2015.
Dopo la promessa dell’estate 2018, poi svanita, di ampie forme di tutela, sembra che qualcosa si stia muovendo, complice forse la consapevolezza nei confronti di un fenomeno in espansione. Il decreto “salva imprese”, con le norme sui riders al suo interno, non convince. Se minori problemi porta con sé l’assicurazione Inail obbligatoria contro infortuni e malattie per chi porta i pasti a domicilio o fa consegne in città e su due ruote e prende gli ordini attraverso app e piattaforme digitali, maggiori critiche vengono riservate al mix di cottimo e paga oraria, con la sola garanzia che la retribuzione in base alle consegne effettuate avvenga in misura non prevalente.
L’assenza di un obbligo a svolgere la prestazione rischierebbe di inquadrare i fattorini digitali nell’area poco o nulla tutelata del lavoro autonomo coordinato e continuativo. La Corte d’Appello di Torino, nella pronuncia del 4 febbraio 2019, ha segnato una svolta in merito allo status giuridico dei riders riconoscendole come collaborazioni etero-organizzate. Pur respingendo la domanda principale volta a far accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, i giudici d’appello accolgono la domanda subordinata in base alla quale si chiedeva l’applicazione dell’articolo 2 del Dlgs 81/2015 con la conseguenza che alle prestazioni autonome coordinate dal committente si applicassero le tutele previste per il rapporto di lavoro subordinato. I giudici torinesi respingono, così, il carattere di “norma apparente” – e quindi inidonea a estendere l’ambito di operatività della subordinazione – attribuito dal giudice di prime cure all’articolo 2 comma 1 del Dlgs 81/2015 secondo cui la norma fornirebbe una definizione di subordinazione più ristretta di quella dell’articolo 2094 del Codice civile, frustrando in questo modo l’intentio legis di garantire anche alle prestazioni di lavoro autonome e coordinate le garanzie previste nel rapporto di lavoro subordinato.
Secondo il Collegio, la norma in questione individua un tertium genus, tra il rapporto di lavoro subordinato e la collaborazione che, pur non determinando la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tout court, porta all’applicazione di una parte della disciplina della subordinazione, consentendo l’operatività di una serie di tutele, da quelle salariali a quelle assicurative e previdenziali tipiche del rapporto subordinato, compresa l’assistenza sanitaria integrativa a carico delle aziende, la consegna dei dispositivi di protezione individuale, la bilateralità e il riconoscimento della contrattazione di secondo livello in merito, per esempio, a formazione, buoni pasto e premi di produzione.
Pur essendo formalmente negata la qualificazione di lavoratori subordinati – osserva Marco Novella, professore di Diritto del lavoro presso l’Università di Genova – nel caso in cui le modalità di esecuzione delle loro prestazioni siano organizzate dal committente, con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, troverà applicazione la disciplina del lavoro subordinato, nonostante i rapporti stessi rimangano tecnicamente di lavoro autonomo.
Pastore conclude il suo editoriale con una sintesi efficace ed esemplificativa dei termini della questione: un cameriere di un qualsiasi ristorante viene pagato anche per periodi di inattività, in cui non ci sono clienti da servire e commesse da espletare; eppure nessuno pensa di pagare quel cameriere “a pezzo”, per i compiti espletati. Perché, allora, non dovrebbe suonare strano che questo trattamento venga riservato ai riders?
A mio avviso, è necessario inquadrare i riders come lavoratori dipendenti, sebbene nulla, o pochissimo, si sia fatto in relazione alla necessità di estendere diritti e tutele a questi lavoratori. Scelte non risolutive e molto al di sotto delle aspettative, questo è quanto si legge in una memoria depositata dalla Cgil nelle commissioni Lavoro e Industria al Senato in merito al Dl salva imprese.
Il faro non può che essere la contrattazione collettiva, anche tramite accordi sindacali che, in considerazione delle peculiarità produttive del settore, eventualmente prevedano modulazioni, adattamenti alla disciplina applicabile ai rapporti di lavoro dei ciclofattorini digitali; del tutto minimali le tutele offerte, tanto più che riguarderebbero solamente i riders e non tutti i gig workers e, soprattutto, non eliminano il riferimento al cottimo e non garantiscono il diritto a un compenso dignitoso, come previsto dalle retribuzioni definite dalla contrattazione collettiva.