C’è stato un momento in cui il tema sull’orario di lavoro era quando farlo finire. Si stava diffondendo il workalholism, una malattia presa da chi non riusciva mai a staccare realmente dagli impegni lavorativi. Il diffondersi del lavoro attraverso device informatici aveva ampliato i rischi di questa deriva. Per molti il lavorare sempre era diventato il modo di essere, non riuscivano più ad avere interessi e relazioni fuori dagli impegni lavorativi.
La diffusione dei mezzi di comunicazione ha poi portato a un’estensione silenziosa degli orari di lavoro. La pandemia e il lavoro a distanza hanno poi fatto mettere un po’ da parte la questione. In realtà, le regole per contenere l’invasione del tempo privato da parte delle comunicazioni di lavoro esistono. Telefonate, mail, messaggi whatsapp e altre forme di comunicazione lavorative possono (devono?) essere sospese dopo l’orario di lavoro fissato contrattualmente. Sono regole da rispettare più con il buon senso che per obbligo, proprio perché coinvolgono il tono delle relazioni interpersonali fra colleghi e, spesso, colleghi che hanno posizioni di potere diverse nella gerarchia aziendale.
Con il dopo pandemia il tema dell’orario lavorativo è stato ripreso perché si è provato, prima in Gran Bretagna e poi in altri Paesi europei, a rimodulare la distribuzione settimanale del tempo di lavoro per arrivare a 4 o 4,5 giornate lavorative. Obiettivo: avere più tempo libero per altri interessi. È questa una delle spinte arrivate dopo l’esperienza del lockdown subito.
La prova è stata valutata positivamente dalle aziende laddove ha determinato un aumento della produttività. Sono i settori e le imprese che hanno ridisegnato i turni e la durata delle giornate lavorative con una riduzione dell’orario senza intaccare i salari. Vanno in questo senso anche alcune contrattazioni aziendali fatte nel nostro Paese. Hanno in genere previsto di allungare l’orario di lavoro giornaliero su alcuni giorni della settimana liberando così in toto o parzialmente il quinto giorno lavorativo.
Sembrava essere la diminuzione del lavoro settimanale la nuova frontiera per i prossimi anni. La Spagna ha avviato un confronto fra Governo e rappresentanze sociali per fissare a 37,5 ore (da raggiungersi in due anni) la durata settimanale del lavoro e fissando a 10mila euro procapite la multa per le aziende che non dovessero rispettare il limite di legge. L’intervento legislativo fissa il massimo ammesso e aprirebbe a settori e imprese di andare poi a ulteriori eventuali riduzioni sulla base di accordi specifici.
La valutazione di settore e aziendale è quella che già oggi fissa poi i dati reali che sono al di sotto dei massimi fissati dalle legislazioni nazionali dato il limite massimo generalizzato delle 40 ore. Nella realtà la media della durata settimanale per l’Europa è di 36,1 ore settimanali. Il minimo lo si registra nei Paesi Bassi con 32,2 ore settimanali, mentre il limite superioreè quello della Grecia con 39,8 ore settimanali.
Visto il record del dato medio europeo più alto ha fatto scalpore la proposta del Governo greco di portare a 6 i giorni settimanali lavorativi nei casi in cui le imprese che lavorano con orari continuativi (7 giorni su 7, 24 ore su 24) abbiano carichi di lavoro eccessivi da smaltire. Sono esclusi i settori del turismo e delle ristorazione che hanno una normativa dedicata. A fronte di questo carico aggiuntivo di lavoro è previsto un incremento salariale del 40% che diventa del 115% se il sesto giorno è festivo.
La proposta non nasce da una volontà di ritorno alle regole della prima fase della rivoluzione industriale. È un tentativo di risposta a due problemi che hanno in Grecia un peso particolare. Vi è come per altri Paesi un calo demografico a cui si somma il rifiuto dei giovani verso alcune professioni che porta a grandi difficoltà per molti settori che lavorano h 24 ad assicurare i servizi indispensabili. La sanità è uno dei problemi principali. Come sempre alle condizioni di lavoro si sommano quelle salariali per rendere difficile il reclutamento di nuovi lavoratori per questo come per altro nei settori dei servizi. A ciò si deve anche aggiungere che la produttività greca è mediamente inferiore a quella europea del 40%. È questo il limite che lascia poco spazio a proporre altre politiche per aumentare la produzione nel breve periodo.
La proposta sta ovviamente ricevendo un forte rifiuto da parte delle organizzazioni sindacali e anche le organizzazioni degli imprenditori non sono convinte che sia la strada a migliore.
Diminuire l’orario di lavoro con parità di salario richiede politiche accorte, come dimostra anche per contrappeso il tentativo di aumentare l’orario. Il tempo di lavoro per molte attività è normalmente scandito dalla durata giornaliera, settimanale e annuale, scontando i periodi di ferie.
Per molti è però stagionale o distribuita in modo non lineare lungo l’arco dell’anno. Intervenire con misure uguali per tutti può scontrarsi con differenti livelli di produttività e modelli organizzativi con effetti negativi sul sistema produttivo nel suo complesso. Come evidente sul nostro mercato del lavoro, già oggi le differenze fra lavoratori impegnati in diversi settori sta portando a profonde diseguaglianze. Orari di lavoro ridotti involontari e salari al di sotto dei limiti contrattuali stanno producendo una crescita di lavoratori poveri. È evidente che la tendenza dei prossimi anni sarà per la diminuzione del peso del lavoro e del tempo dedicato.
Attenzione all’aumento di produttività e di distribuzione dei redditi necessari perché non diventi fonte di nuove diseguaglianze invece di essere una nuova fase di maggiore dignità per i lavoratori.
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