Lo smart working rientra nei ranghi. È stata definitivamente archiviata la normativa straordinaria che aveva facilitato, stante la situazione di emergenza sanitaria, l’applicazione del lavoro organizzato anche a distanza per permettere, nella fase pandemica, di proseguire con le attività produttive anche al di fuori degli uffici.
Se avessimo creduto alle previsioni che molti cosiddetti esperti dell’organizzazione del lavoro facevano durante i due anni del Covid avremmo dovuto assistere, in questi giorni, all’entrata in vigore del vero smart working. Sì, perché le previsioni erano che nessuno sarebbe più rientrato in uffici uguali a prima. Che avremmo assistito a crolli dei valori immobiliari per i palazzi del terziario perché sarebbe servito un terzo dei metri quadri che normalmente venivano usati. Gli spazi dovevano diventare multiuso perché pochi o addirittura nessuno avrebbe più avuto una sua scrivania dedicata. Siccome la realtà è testarda, abbiamo davanti una situazione completamente diversa.
Qualcuno ha tentato fin dall’inizio di spiegare che il lavoro è relazione con la realtà e con l’altro. Che quindi l’esperienza vissuta durante il lockdown, una realtà di lavoro a distanza ma senza una riorganizzazione reale del lavoro, avrebbe prodotto una domanda di ritorno alle relazioni dirette, una ripresa di spazi sociali e non un’accentuazione dell’isolamento. Addirittura si sono aperti spazi di coworking per permettere anche a chi non poteva andare in ufficio di non lavorare da solo.
Abbiamo visto in molte aziende avanzate ridisegnare i luoghi di lavoro proprio per permettere più momenti di socialità durante la presenza in ufficio e confermare che la produttività migliora con la presenza fisica nelle riunioni piuttosto che insistere con il lavoro a distanza.
La fine della legislazione legata all’emergenza riporta adesso il dibattito sul tema vero del lavoro agile. Era questa una previsione legislativa che aveva anticipato l’accelerazione imposta poi dalla pandemia. Lo smart working, o lavoro agile per riprendere la definizione italiana, presuppone un cambiamento profondo dell’organizzazione del lavoro, non solo la dislocazione fisica ma la programmazione e l’assegnazione di obiettivi che non richiedono né la sede lavorativa unica, né il controllo dell’orario di lavoro. Insomma, non è solo il lavorare da casa, ma un rapporto diverso con il lavoro.
Proprio per il cambiamento che comporta nelle relazioni di lavoro lo smart working richiede che alla base vi sia un accordo sindacale che ne fissi le regole. L’insieme di tutele, garanzie, orari, misurazione dei risultati e valutazione economica porta con sé accordi che valutino gli effetti sulla produttività e quindi sulla distribuzione dei risultati economici ottenuti.
È questione centrale per le contrattazioni di secondo livello nelle aziende e anche per alcune esperienze territoriali. Lo smart working fa riemergere il tema della necessità che l’obiettivo di lavorare per incrementi di produttività e di salario a livello di imprese sia la via.
È tema caldo anche sotto un altro aspetto che si sta discutendo in questi giorni. In Parlamento sono arrivate ben tre proposte per la riduzione dell’orario di lavoro. Le proposte sono state depositate dal gruppo di Verdi e sinistra, dai 5 stelle e dal Pd. Le prime due propongono la vecchia teoria della riduzione dell’orario di lavoro per ottenere un aumento dell’occupazione, insomma lavorare meno per lavorare tutti, una linea già sconfitta dalla realtà dove si è cercato di applicarla. La proposta P è invece più realista e, a fronte di un obiettivo generale, lascia poi alla contrattazione di categoria e locale di definire forme e modi.
Parlare dell’orario di lavoro è infatti tema non semplice e riguarda soprattutto la definizione dei tempi di vita per tutti. Vi sono lavori che si fanno solo quando la maggioranza non lavora. Dalla hotellerie allo spettacolo, ma anche alla logistica al minuto che sta aumentando in questi anni. Gli orari sono quelli giornalieri, settimanali e annuali. Riduciamo il totale o prevale la redistribuzione sulla riduzione? Gli effetti del ridisegno degli orari in alcuni settori determinano una riduzione degli accessi ai servizi da parte dei cittadini e possono risultare controproducenti. Molte sono le questioni che si pongono e, soprattutto, sono da rapportare ai diversi settori produttivi.
Stupisce che molti, collocati a destra e sinistra dello schieramento politico, siano ancora vittima di uno statalismo assoluto per cui pensano che possano decidere gli orari della società per legge. Almeno a sinistra dovrebbero riprendere la lezione gramsciana per capire che non basta lo Stato per essere realmente progressivi se non si hanno profonde radici nei corpi sociali.
La situazione occupazionale positiva di questo periodo deve invece indurre ad affrontare il tema generale del sistema produttivo del nostro Paese per segnare un cambiamento di fondo. Sta crescendo l’occupazione con lavori di bassa qualità e bassi salari. Il sistema produttivo italiano è caratterizzato da bassa produttività. Il mismatching fra professionalità richiesta dalle imprese e formazione dell’offerta di lavoro si allarga costantemente. Serve che vi siano sostegni alle intese per aumenti della produttività che diventino la base per aumentare i salari e che questi aumenti siano defiscalizzati. Ciò sarà incentivato e sostenuto certo dalle decisioni fiscali che dovranno essere prese, ma soprattutto se i settori statali avviano anche loro un piano di ridisegno dei servizi pubblici all’insegna di un miglioramento dei servizi offerti, dell’aumento della produttività e dei livelli delle competenze impegnate. Sarebbe il modo per indicare che è l’intero Paese che, riorganizzando il lavoro e i suoi orari, si propone di correggere le crescenti diseguaglianze con un’ipotesi comune di sviluppo del lavoro di qualità e della produttività del sistema Italia.
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