La scorsa settimana una folta delegazione della Commissione europea ha interagito con gli alti funzionari dei dicasteri italiani maggiormente interessati alle sei “missioni” del Piano nazionale di ripresa e resilienza al fine di esaminarne i progressi anche alla luce delle procedure per sbloccare la prima rata dei finanziamenti (21 miliardi di euro). Un’approvazione preliminare è già stata data all’inizio di marzo, ma il via libera dovrà essere confermato dal Comitato economico-finanziario: raggiunti 51 obiettivi, ma ne mancano altri 100 per ottenere ulteriori 40 miliardi. L’erogazione dei fondi è prevista entro metà aprile.
Sono usciti, in queste ultime settimane, importanti contributi sullo stato di attuazione del Pnrr da parte della Ragioneria generale dello Stato, della Corte dei Conti, dell’Anci, dal Dipartimento per le Politiche di coesione e dal ministero per lo Sviluppo economico. Sono tutti consultabili sul sito “Italia Domani” del ministero dell’Economia e delle finanze.
Grande attenzione sui fondi europei mentre si levano voci (Confindustria, Anci, Ance, sindacati e molti altri) per sostenere l’esigenza di “aggiornare” o “rifare” il Pnrr a ragione della nuova situazione economica internazionale creatasi alla luce dell’aggressione della Federazione russa all’Ucraina e dei forti aumenti dei prezzi. È abbastanza chiaro cosa si intende: ridurre i progetti o le dimensioni dei singoli investimenti per tenere conto del fatto che, a causa degli aumenti dei prezzi, con una somma data di euro si acquista meno calcestruzzo e meno high-tech.
Ciò vuol dire che a due anni circa dal Next Generation Eu (di cui il Pnrr è uno dei bracci operativi) si continua a confondere il Piano con un grande “fondo strutturale” quali quelli finanziati da decenni dall’Unione europea, mentre si tratta di uno strumento totalmente differente. Il suo obiettivo è quello di permettere a Paesi a rischio di non potere stare al passo con il resto dell’Unione europea e in particolare dell’unione monetaria di realizzare un programma di riassetto strutturale per rimettersi in carreggiata. L’Italia è il maggior destinatario dei finanziamenti e ha firmato più impegni poiché tra il 2000 e il 2019 è stato il solo Paese europeo il cui reddito reale per abitante è diminuito; nel 2000 eravamo sopra la media europea del 20%, mentre nel 2019 eravamo scesi sotto la media europea del 3%. La nostra partecipazione all’unione monetaria era (ed è) davvero a rischio (e lo è ancora se non realizziamo un effettivo riassetto strutturale), ma dato che siamo uno dei grandi Paesi fondatori, la nostra exit metterebbe in pericolo l’intera costruzione.
Il meccanismo non è una novità nella finanza per lo sviluppo. Circa 50 anni fa, la Banca mondiale cominciò a sperimentare con prestiti legati a “riforme” nel cui quadro gli investimenti erano uno strumento per misure di politica pubblica atte a stimolare lo sviluppo. Una delle prime operazioni di questo genere fu un’ampia linea di credito alla Corea (il cui Pil pro-capite era la metà di quello dello Zambia; oggi è pari a quello dell’Italia) per il riassetto della politica della tecnologia: varie modifiche legislative mettevano in competizione centri di ricerca e università (anche nell’ambito del settore statale) e gli istituti venivano forniti di nuove attrezzature modernissime; secondo gli storici dell’economia, la linea di credito fu una molla importante per la piega presa dall’industria coreana. Un’ altra operazione fu il supporto alla riforma dell’istruzione in Etiopia; gli esiti non furono, almeno nel breve periodo, parimenti positivi perché la riforma della struttura stessa della scuola (portando la scuola elementare da sei a quattro anni e valorizzando, dopo revisione dei programmi, le scuole tradizionali del clero copto, senza oneri per lo Stato) scatenò la rivolta degli insegnanti e fu la miccia della fine dell’Impero e dell’instaurazione del regime di Mengistu.
Nel 1980, il “Rapporto Brandt”, dal nome del Cancelliere tedesco che presiedette una commissione internazionale per riflettere sulla finanza per lo sviluppo, teorizzò il finanziamento del “riassetto strutturale”, prestiti che potevano anche non prevedere il supporto di investimenti purché sostenessero “riforme” mirate a rimuovere ostacoli allo sviluppo. Più o meno in parallelo, una linea analoga venne presa dal Fondo monetario internazionale. I prestiti per il “riassetto strutturale” delle due istituzioni, pur se guardavano ambedue al medio e al lungo termine, avevano contenuti differenti: quelli della Banca miravano all’economia reale (o nella sua interezza o di particolari settori), mentre quelli del Fondo erano indirizzati a “riforme” della finanza pubblica, del tasso di cambio e del debito della Pubblica amministrazione,
L’Ue sta ora costruendo un assetto analogo a quello delle due istituzioni finanziare con sede centrale a Washington. Il Meccanismo europeo di stabilità (che alcuni avrebbero voluto denominare Fondo monetario europeo) è il prestatore di ultima istanza per la “stabilità finanziaria” e, per questo motivo, le sue analisi hanno specialmente un accento sulla “sostenibilità” del debito delle pubbliche amministrazione. Il piano straordinario Next Generation Eu guarda invece alle “riforme” essenziali perché i giovani di oggi possano vedere un’Ue che diventi più moderna e più giusta.
Si possono allestire tali “riforme” e valutarle sia prima della presentazione del Pnrr sia nel loro avanzamento, sia nei loro esiti prima di erogare l’ultima rata del finanziamento? È normale che un Governo e una Pubblica amministrazione impregnati di diritto civile e amministrativo siano tanto scettici da pensare che si tratti di un requisito futile e, quindi, da non prendere troppo sul serio.Si suggerisce loro la lettura del saggio di Balázs Ègert, uno degli economisti di punta dell’Ocse, The Quantification of Structural Reforms: Taking Stock of the Results for OECD and Non-OECD Countries nell’ultimo fascicolo (dicembre 2020) dei Cesifo Working Papers. Il Cesifo è il centro di studi e ricerche di Monaco a cui più ha fatto ricorso Angela Merkel negli ultimi 15 anni. In 36 pagine, la ricerca quantizza gli effetti di medio e lungo periodo in settori come il mercato del lavoro, il sistema giudiziario, la competitività, la qualità delle istituzioni (quindi della Pubblica amministrazione) e via discorrendo. L’Italia dispone della strumentazione tecnica necessaria (ad esempio, il modello MACGEM-IT realizzato dalla Direzione I del Dipartimento del Tesoro in collaborazione con il dipartimento di Economia e Diritto dell’Università degli Studi di Macerata), ma pare manchi la volontà politica di effettuare le riforme necessarie.
Ad esempio, mentre quella della Pubblica amministrazione sembra stia facendo passi avanti (come riconosciuto nel recente di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro Molte riforme per nulla: una controstoria economica della seconda repubblica Marsilio, 2022), le riforme della giustizia e della concorrenza paiono impantanate con grande preoccupazione di Bruxelles (e di Roma). La prima è bloccata da un gruppo di dipendenti pubblici (tali sono i magistrati) mossi da interessi particolaristici, i cui scandali hanno portato imbarazzo all’Italia in tutta Europa e non solo. Anche la seconda è frenata da interessi particolaristici (ad esempio, quelli relativi alle concessioni balneari) che ci hanno già causato procedure di infrazione da parte dell’Ue.
Rifare il Pnrr? A causa degli sconvolgimenti dell’economia mondiali dovuti dall’aggressione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, alcuni investimenti andranno prima o poi rimodulati. Ma il cuore del Piano sono le riforme strutturali che vanno, urgentemente, approfondite e attuate.
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