Mettiamo in fila i cosiddetti buoni propositi messi in campo per sostenere l’esigenza di una riforma degli ammortizzatori sociali: rendere possibile l’utilizzo delle casse integrazioni per tutte le imprese, a prescindere dal numero dei dipendenti; estendere l’utilizzo delle Cig anche per la chiusura delle attività produttive; ridurre i requisiti di anzianità per l’accesso alle varie indennità di disoccupazione, aumentando nel contempo la durata dei benefici e gli importi percepiti; mettere a carico dello Stato, e dei contribuenti, i costi finanziari dei nuovi interventi.
Questi obiettivi, a detta dei proponenti, sarebbero giustificati per quanto avvenuto durante la pandemia Covid. Un argomento assai singolare dato che, per l’occasione, i contributi e i sostegni erogati ai lavoratori, alle imprese e alle famiglie erano giustificati dalla natura extraeconomica della crisi per compensare le conseguenze dei provvedimenti amministrativi di distanziamento sul reddito e salvaguardare la tenuta delle organizzazioni produttive.
Nelle condizioni ordinarie, lo scopo primario dei sostegni al reddito dovrebbe rimanere quello di far fronte alla perdita involontaria del lavoro, in modo da consentire alle persone, e ai nuclei familiari di riferimento, di contenere le conseguenze negative sul piano economico e di avere a disposizione un tempo ragionevole per trovare una nuova occupazione. Lo strumento primario per questa finalità adottato in tutti i Paesi più sviluppati è quello delle indennità di disoccupazione accompagnate da forti interventi di politica attiva per il lavoro. In questo contesto l’originalità italiana è rappresentata dall’utilizzo storico delle casse integrazioni (Cig), per consentire di compensare le riduzioni provvisorie delle attività lavorative, o di gestire fasi straordinarie di ristrutturazioni aziendali, in costanza del rapporto di lavoro. Lo strumento è stato oggetto di molte critiche per gli abusi legati alle proroghe infinite dei periodi di Cig utilizzati, anche nel caso di aziende decotte o formalmente chiuse.
Resta il fatto che tale strumento rimane essenzialmente funzionale per le imprese strutturate, per le quali vengono previste anche le possibilità di ridurre provvisoriamente gli orari con i cosiddetti contratti di solidarietà, compensando le perdite di salario con quote di Cig, e di agevolare il pensionamento anticipato dei lavoratori anziani.
Le Cig, in deroga, sono state introdotte anche per le piccolissime imprese in due casi eccezionali: per fronteggiare le conseguenze della lunga crisi 2008-2014, e recentemente per evitare i licenziamenti nel corso della pandemia sanitaria.
Per le piccolissime imprese e per i settori che registrano strutturalmente un’elevata flessibilità e mobilità del lavoro, soprattutto per la stagionalità della domanda, questi strumenti si prestano a notevoli abusi per la comprensibile impossibilità di verificarne il corretto utilizzo (ad esempio i lavoratori che continuano a operare retribuiti con le casse integrazioni) o addirittura per la simulazione di rapporti di lavoro finalizzati a far maturare indennità di sostegno al reddito spropositate rispetto ai contributi versati. Il caso più evidente è quello del settore agricolo che registra più beneficiari di sostegno al reddito che lavoratori nei campi, senza tener conto che una buona parte di questi ultimi sono immigrati pagati in nero.
La riforma degli ammortizzatori sociali del 2014 era stata impostata per estendere i sostegni al reddito, Cig comprese, introducendo delle condizioni per contenere gli eventuali abusi, con: la costituzione di fondi di solidarietà, promossi e gestiti dalle parti sociali per estendere le Cig per i settori che ne erano privi e alle aziende superiori ai 5 dipendenti, e finanziati con il concorso dei contributi delle imprese e dei lavoratori; l’esclusione delle causali di utilizzo delle Cig nel caso di crisi aziendali o di chiusura delle imprese; i contributi aggiuntivi per le imprese che utilizzano di fatto le prestazioni; il mantenimento di requisiti di anzianità ragionevoli per accedere alle prestazioni; le riduzioni graduali delle indennità, a partire dal 4° mese di usufrutto, per non scoraggiare la ricerca di un nuovo lavoro. I fondi solidarietà costituiti sono 12, tra i quali 10 presso l’Inpd ivi compreso il Fis per le aziende superiori ai 5 dipendenti, che gestisce attualmente anche i fondi per le casse in deroga finanziate dallo Stato durante la crisi Covid. Due di questi fondi, gestiti direttamente dalle parti sociali per le aziende artigiane e per le Agenzie di somministrazione dei lavoratori, sono quelli che hanno ottenuto le migliori performance anche nei mesi dell’emergenza finanziaria.
Sin da subito, con l’esclusione del settore agricolo dall’attuazione delle norme, sono partiti i tentativi di smantellare gli obiettivi fondo della riforma. Proseguiti con la riproposizione per legge delle causali per le crisi aziendali e le proroghe ad hoc per quelle in atto, e mettendo in carico allo Stato gli oneri degli interventi per il settore bancario e del trasporto aereo.
Un disegno che, nelle intenzioni dell’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, dovrebbe essere completato estendendo queste anomalie a tutto il sistema delle imprese, riducendo in modo significativo le deterrenze previste dalla riforma del 2014 e mettendo gli oneri a carico dei contribuenti.
Costruire sulla degenerazione assistenziale dei sostegni al reddito la condizione per rafforzare le politiche attive del lavoro è praticamente impossibile. Per l’evidente distrazione nell’utilizzo delle risorse che verrebbero sottratte agli usi più produttivi, ma soprattutto per il massiccio disincentivo per la ricerca di nuove opportunità di lavoro da parte dei beneficiari.
Assai sgradevole il fatto che, per superare le giuste preoccupazioni del collega ministro dell’Economia per l’impatto sui conti pubblici, il ministro Orlando ricerchi il consenso delle parti sociali sottoponendo loro una proposta di riforma priva di coperture, con la promessa di caricare gli oneri sui conti dello Stato.
Nella politica economica del Governo muovono due forze che fanno apparire l’Esecutivo come una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde. Con una parte volta a mobilitare le risorse in modo efficiente per gestire una difficile transizione economica che comporterà notevoli cambiamenti nel sistema produttivo e nel mercato del lavoro. Un’altra impegnata a mettere in campo tutto l’armamentario possibile per difendere l’esistente sino al punto di pregiudicare la possibilità di investire sulla capacità di intrapresa delle persone e sulla valorizzazione delle risorse umane.
Qualcosa di molto diverso, e ideologicamente più insidioso, dal cercare di contemperare il fabbisogno di modernizzazione con la gestione ragionevole dei costi sociali. Traspare infatti l’idea di introdurre in vari modi, e per tutte le persone che non lavorano, una sorta di reddito di base garantito dallo Stato, per compensare l’impossibilità di avere una domanda di lavoro sufficiente per tutti coloro che desiderano lavorare (degno di evidenza il fatto che una disposizione normativa prevede già la possibilità per coloro che hanno esaurito l’indennità di disoccupazione di usufruire del Reddito di emergenza).
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.