Una decisione di tipo apparentemente tecnico come quella di uniformare le valutazioni statistiche della disoccupazione ha messo in luce alcune anomalie del sistema italiano. Certo la decisione di considerare disoccupati quanti in cassa integrazione da oltre tre mesi, se lavoratori dipendenti, o senza attività per analogo periodo, se lavoratori autonomi, ha portato il dato dei posti di lavoro persi negli ultimi 12 mesi a sfiorare il milione di unità. Soffermarci solo sull’impatto numerico di questo cambio metodologico ci porterebbe, come dice un antico detto, a guardare il dito e non vedere la luna.



Per chi si occupa di mercato del lavoro il dato era già noto. Ciò che così emerge come una particolarità del nostro sistema è che il modello di ammortizzatore sociale prevalente, che fa sì che si considerino i fruitori ancora occupati, punta a salvare il rapporto con il posto di lavoro e non il lavoro in quanto tale. Il sistema è nato per permettere di gestire fasi di transizione. Periodi in cui temporaneamente l’impresa doveva procedere a limitare la produzione e, in vista di una ripresa certa, si assicurava il sostegno al reddito per quanti erano “parcheggiati” in attesa della ripresa. Da questa base si è poi passati a utilizzare questo strumento anche di fronte a crisi industriali senza previsione di riapertura. Il tentativo era di dare tempo per eventuali acquisizioni o trasformazioni economiche con ripresa anche degli occupati.



Di fronte alla pandemia il ricorso alla cassa integrazione, abbinata al blocco dei licenziamenti e all’estensione a tutte le imprese, è stato lo strumento utile per contenere i costi sociali della crisi. Ha messo però in luce anche le debolezze di uno strumento nato per altri scopi. Non ha assicurato le tutele alle fasce più fragili dei lavoratori e ha nascosto la reale portata che la crisi determinerà sull’occupazione alla ripresa della produzione e della sospensione delle tutele straordinarie.

È per queste ragioni che oggi è all’ordine del giorno del Governo la riforma degli ammortizzatori sociali. Ciò che va immediatamente corretto è mettere mano al sistema affinché assicuri una copertura universale per tutti i lavoratori mettendo fine all’ormai insostenibile dualismo fra tutelati e non tutelati.



Se riforma decisiva deve essere va però rivista l’impostazione di fondo. Le tutele devono riguardare la possibilità per il lavoratore di avere un nuovo lavoro. Cosa diversa dal posto di lavoro. Servono politiche industriali e territoriali per mantenere in Italia il maggior numero di imprese, anzi, serve potenziare le politiche per attrarre nuove imprese a investire da noi. Ma il diritto individuale della persona è di trovare un servizio al lavoro che si prenda carico del suo bisogno e gli fornisca tutti gli strumenti necessari, sostegno al reddito ma anche formazione, per poter trovare una nuova occupazione.

Il ritardo italiano sulla creazione di una politica attiva del lavoro va oggi recuperato con molta rapidità. Il tema della riforma degli ammortizzatori sociali va di pari passo con la costruzione di un sistema di servizi al lavoro capace di fornire una politica di ricollocazione a quanti perdono il lavoro. Anche le ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro tendono a separare i due temi, mentre una reale svolta riformatrice degli ammortizzatori sociali non può non coinvolgere anche decisioni definitive sui Centri per l’impiego e l’Anpal, l’agenzia nazionale che avrebbe dovuto coordinare le politiche del lavoro.

Partiamo dai processi e dai servizi invece che rifarci alle teorie. Nei Paesi europei, e la stessa Europa sollecita tutti a realizzare modelli simili, chi resta disoccupato si reca presso un Centro per l’impiego dove riceve la tutela al reddito che gli spetta e un piano di azione per adeguare le proprie competenze in vista di un percorso finalizzato a trovare una nuova occupazione. Fra la presa in carico e l’avvio del programma personalizzato di adeguamento delle competenze passa un certo lasso di tempo per cui coloro che non richiedono adeguamento della formazione possono trovare lavoro attraverso una proattivazione delle proprie doti e conoscenze. La rete dei servizi è assicurata da agenzie pubbliche e private che, in forma diversa da Paese a Paese, collaborano nel fornire tutti i supporti previsti dai piani individuali.

A coordinamento di quanto viene svolto dai centri territoriali vi è in ogni Paese un’agenzia che promuove e coordina quanto previsto dalle politiche attive per il lavoro. Le agenzie hanno la gestione delle risorse economiche sia per i sostegni al reddito (politiche passive), sia per finanziare l’erogazione dei servizi di formazione, orientamento, ecc. ritenuti necessari (politiche attive).

Senza porre grandi analisi sul significato della “condizionalità” dei servizi che pesa invece nel dibattito italiano, è palese che politiche passive e attive marciano assieme. Il loro abbinamento assicura l’intervento economico necessario ad assicurare la continuità del reddito e insieme il miglior sostegno possibile per cercare una nuova collocazione lavorativa.

Anpal era nata per costruire anche in Italia un modello analogo. Indispensabile era però la revisione delle attribuzioni alle Regioni delle politiche del lavoro come previsto dal referendum poi bocciato. Oggi quindi servono due passaggi fondamentali: correggere l’errore di aver lasciato la parte politiche passive all’Inps (senza cassa sarebbe un’agenzia zoppa), riformulare compiti e governance per tenere conto del rapporto reale Stato-Regioni.

Due cose invece non si possono più fare: pensare che esista un riforma degli ammortizzatori sociali ben fatta che non tenga conto anche delle politiche attive del lavoro e continuare a lasciare il prof. Parisi dal Mississippi ancora a presiedere Anpal e Anpal servizi.

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