Dopo settimane dense di trattative politiche, la riforma della ministra Cartabia sul processo penale è stata finalmente votata da un ramo del Parlamento e si avvia, alla ripresa post estiva, ad essere definitivamente varata, stante l’annunciata fiducia che verrà posta dal governo. Passata l’emotività della fase più complessa, crediamo sia opportuno provare a ragionare con maggiore pacatezza sulle proposte finali formulate dal governo, partendo dal fissare i punti fermi per passare poi ad analizzare luci ed ombre del compromesso raggiunto in parlamento.
Riforma Cartabia, i punti fermi
Il nostro sistemale processuale penale non funziona. Gli addetti ai lavori lo affermano da anni. Complesso il discorso sulle cause del non funzionamento; di certo, dopo circa 30 anni di vigenza del codice di rito, a cui va dato il merito di aver alzato la soglie delle garanzie rispetto a quello precedente, abbiamo una fotografia sufficientemente chiara delle (innumerevoli) disfunzioni. Nell’ambito degli effetti prodotti dal mal funzionamento della macchina, uno dei più rilevanti, non l’unico, è senz’altro quello dei tempi che sono indiscutibilmente oltre la soglia della ragionevolezza.
Al non funzionamento del sistema si è poi aggiunta una drammatica crisi di credibilità della magistratura, causata dalla cattiva gestione delle sue prerogative costituzionali di autogoverno.
Fra i punti fermi, va altresì enunciato il dato che vede i nostri magistrati fra i migliori d’Europa per capacità di trattazione dei fascicoli.
In estrema sintesi, abbiamo un raffinato sistema di garanzie (almeno in astratto) a presidio delle garanzie dell’imputato, abbiamo ottimi magistrati, abbiamo un pessimo sistema di autogoverno degli stessi, abbiamo un pessimo funzionamento della macchina giudiziaria.
Ebbene, mettere mano a tutto ciò comporta una radicale modifica dell’assetto (anche costituzionale) della macchina stessa che per definizione presuppone tempi non brevi di studio e soprattutto scelte di politica giudiziaria difficilmente compatibili con un governo di larghissime intese come quello attuale. Tuttavia, un soggetto terzo, ovvero l’istituzione europea, nell’accordarci un importante prestito finalizzato a salvare il nostro sistema economico minato dalla pandemia, ci ha posto delle condizioni fra le quali la realizzazione della drastica riduzione del tempo necessario a celebrare i processi, essendo l’Italia il paese con il maggior numero di procedure aperte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo su questo versante. Avere un procedimento penale per lungo tempo pendente ha effetti negativi per le imprese, danneggia la reputazione e la carriera delle persone.
Come sancito dal Pnrr (e tutto sommato anche dalla Costituzione, che prevede la ragionevole durata), la ministra ha così dovuto accettare la sfida di varare una riforma che si prefigurasse, non di sanare il sistema nella complessità delle sue storture, ma di mettere mano alla “sola” riduzione del 25% dei tempi dei processi. Occorre quindi avere ben presente che la riforma appena varata, come ha ricordato Sabino Cassese, rappresenta solo il primo passo di una scalata alla vetta della montagna, ovvero la riforma complessiva della giustizia, che non potrà essere troppo ritardata e che un governo dovrà impegnarsi a fare a prescindere dagli accordi assunti in ambito europeo.
Le luci della Riforma Cartabia
Quanto al merito della riforma, essa non concerne la sola prescrizione, sulla quale torneremo più avanti, ma anche altri aspetti, alcuni di particolare interesse, altri più controversi.
Una novità importante riguarda le sanzioni che andranno a sostituire le pene detentive brevi. Si tratta di modi di scontare la pena diversi dal carcere, per soggetti che hanno commesso reati minori. Queste misure potranno essere concesse solo se “il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione dal pericolo che egli commetta altri reati”.
In questo ambito vanno registrati con apprezzamento le novità in materia di giustizia riparativa, ovvero quella giustizia che cerca di arrivare a una riconciliazione tra vittima e colpevole o tra autore di reato e società. La vera rivoluzione della riforma è senz’altro questa, perché introduce in un sistema penale repressivo un elemento in più: quello della giustizia che cerca di ricucire le fratture sociali che un reato crea. È un importante cambio di strategia che francamente è passato quasi inosservato.
Le ombre
In tema di effettiva durata delle indagini preliminari, che è normalmente la fase che più di ogni altra contempla tempi morti, si poteva senz’altro fare di più, ma è interessante il tentativo di attribuire al Gip un controllo più effettivo sui tempi. Poco si è fatto per rafforzare e incentivare i riti alternativi sui quali occorreva scommettere con maggior vigore, come accade in tutti i sistemi accusatori.
Si è poi cercato di restringere il filtro per i casi di rinvio a giudizio, perseguendo la giusta idea che occorre portare in dibattimento il minor numero di processi. Il codice di procedura penale, ad oggi, dice che il pubblico ministero può chiedere che l’imputato sia mandato a processo se ritiene che ci siano gli elementi idonei per sostenere l’accusa in giudizio. In base alla nuova formulazione, invece, il rinvio a giudizio potrà essere chiesto solo se il pm ritiene che ci sia una “ragionevole” previsione che la sentenza del giudice possa essere di condanna. È tuttavia evidente che la formula della ragionevolezza si presta a troppo elastiche interpretazioni ed è quindi tutto da verificare se si riuscirà a sfoltire i processi.
Molto discussa è poi la misura che riguarda i criteri per le priorità delle indagini. Nella pratica, ogni procura opera come ritiene e questo rappresenta una strisciante violazione di un obbligo costituzionale. Nella relazione della Commissione Lattanzi era stata lanciata l’idea che fosse il Parlamento a determinare a quali inchieste dare la precedenza e quali processi trattare per primi. Negli emendamenti portati poi in Cdm si è deciso si lasciare alle camere la prerogativa di individuare dei criteri generali nel cui ambito le singole procure individueranno “criteri di priorità trasparenti e predeterminati”, con l’obiettivo di scegliere “le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Compromesso non proprio esaltante, nella consapevolezza che il modo attraverso cui si gestisce l’esercizio dell’azione penale è uno dei punti cruciali per un buon funzionamento del sistema, rispetto al quale occorre formulare un ripensamento complessivo.
Ed eccoci al tema “simbolo” della riforma, la prescrizione. Dopo notevoli discussioni, per i reati con l’aggravante mafiosa è previsto termine transitorio prolungabile fino a un massimo di 6 anni per concludere il processo d’appello, valido fino al 2024: dal 2025 in poi scenderà a 5 anni. Mentre i processi per associazione di stampo mafioso e voto di scambio politico-mafioso (416-bis e ter) potranno prolungarsi sine die con proroghe infinite, come già previsto nella prima bozza. Anche per tutti i processi ordinari è prevista la possibilità che il giudice giudicante possa stabilire un’ulteriore proroga di un anno in ragione della complessità del processo. L’accordo è stato votato all’unanimità. L’aggiustamento più importante è stato quello relativo alla norma transitoria per arrivare con gradualità a quei termini che il governo si era prefissato, cui si affianca il regime particolare per quei reati che nel nostro paese hanno sempre destato allarme sociale, cioè mafia, terrorismo, traffico internazionale di stupefacenti.
Non può essere taciuto come appaia assai particolare che il governo non avesse già effettuato simili valutazioni, avendo al contrario dovuto correre ai ripari solo sulla scorta delle levate di scudi di molti magistrati fra cui quelle il procuratore nazionale antimafia e il procuratore di Catanzaro, Gratteri.
Altrettanto non può negarsi come lo schema proposto dalla ministra aveva lo scopo di sterilizzare, senza poterla abolire, la riforma Bonafede che sospendeva senza fine la prescrizione e quindi la durata dei processi. Lo spazio politico era francamente ristretto e occorre riconoscere che rispetto a quella varata dal governo gialloverde, questa disciplina è assai preferibile. Tuttavia restano non poche zone d’ombra.
Come ha ben affermato Giorgio Spangher, è chiaro che siamo dinanzi ad un compromesso al ribasso. Le criticità culturali e scientifiche degli effetti dell’improcedibilità li vedremo solo alla fine del 2024. L’introduzione di una serie di fasce per la celebrazione dei processi prima che scatti l’improcedibilità a seconda dell’imputazione ha creato di fatto doppi e tripli binari. Gli anni dell’appello dovevano essere 2 e poi in alcuni casi sono diventati 3, in altri 5 e poi 6, un vero groviglio dal punto di vista procedurale.
Inoltre rimane in piedi il problema degli effetti del nuovo istituto: l’improcedibilità non decide, e cosa ciò comporti lo scopriremo solo con la prima sentenza.
La riforma contempla poi che il giudice possa richiedere proroghe motivate in base alla complessità concreta del processo, con ciò sollevando non poche problematiche in relazione alla definizione di “complessità”. Lasciare una così ampia discrezionalità al giudice fa sorgere problemi sulle garanzie.
L’impressione è che non si sia avuto il coraggio di tornare al vecchio assetto della prescrizione e ciò ha prodotto un meccanismo che fa sorgere più di un dubbio che si sia individuato il modo giusto per raggiungere l’ambizioso obiettivo di ridurre del 25% la durata dei giudizi penali, come richiesto dall’Europa. Se per un verso, il merito della riforma Cartabia è stato quello di aver avuto il coraggio di non scaricare sul cittadino le lacune dell’apparato della giustizia, come fatto dal ministro Bonafede cancellando la prescrizione, per altro verso la ricerca del compromesso ha prodotto un sistema con troppe incognite.
La cornice e il contesto della Riforma della giustizia
La resistenza che la magistratura ha opposto alla riforma Cartabia, che pure ha comportato importanti aggiustamenti quanto ai reati di criminalità, nel suo complesso sembra alquanto pretenziosa e tiene vivo il tema della imprescindibilità della riforma dell’ordinamento giudiziario, non potendo dimenticare che, ad esempio, la nomine del procuratore di Roma è stata annullata dai giudici amministrativi, che altrettanto è accaduto con la nomina di due procuratori aggiunti a Napoli e che a Milano stiamo assistendo ad una profonda spaccatura fra pm e procuratore capo.
Tornando ai temi della riforma, se occorre investire in risorse umane poiché i tempi si riducono non solo con le norme, i numeri reali dei carichi delle corti d’appello sembrano smentire gli allarmismi diffusi negli ultimi infuocati giorni: già oggi ben 19 distretti già hanno tempi medi inferiori ai due anni (a Milano 335 giorni medi per un appello penale, a Palermo 445, a Torino 545, a Catanzaro 567, e così altre 15 Corti). Negli altri 10 distretti, se è vero che i dati non risultano in linea, va anche detto, come fatto dal presidente delle Camere penali italiane, che moltissimi processi attengono a reati gravi per i quali la riforma Cartabia non si applica (reati imprescrittibili) o prevede la celebrazione dell’appello non in due, ma in tre anni. A ciò si aggiunga che laddove vi sia la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello (quindi l’assunzione di prove), il termine dei due-tre anni viene sospeso per il tempo corrispondente.
Come sottolineato da Violante, l’ondata di no arrivata dai giudici rischia di aggravare ancora di più la crisi di legittimazione della magistratura, la quale, invece, dovrebbe concorrere a costruire un processo penale nuovo, diventando protagonista e non antagonista, cambiando a sua volta approccio di mentalità e strategia, facendo finalmente e profondamente ammenda per aver consentito a una minoranza di gestire nel peggior modo possibile un bene prezioso come l’indipendenza.
In questo scenario in cui tutti contestano tutto, la figura di colui che ha imposto il varo di questa riforma si staglia come quella di un gigante. Possiamo solo auspicare che continuerà ad occuparsi anche di tutto quanto altro il sistema giustizia necessita per essere davvero riformato, ben oltre le richieste che pure legittimamente sono pervenute dall’Europa. In bocca al lupo a lei, presidente Draghi.
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