Il valore di mercato degli immobili – come si sa – dipende dal potere di acquisto dei privati cittadini. Nonostante la caduta generalizzata dei redditi per effetto della crisi finanziaria, della pandemia e della concorrenza globalizzata sul mercato del lavoro che spinge al ribasso retribuzioni e precarizza i rapporti di lavoro, il prezzo del mattone ha relativamente tenuto grazie al risparmio generazionale investito per l’acquisto dell’abitazione per figli e nipoti non in grado di farvi fronte autonomamente. La curva discendente dei prezzi è destinata però a stabilizzarsi, se non contrastata da un incremento dei redditi delle nuove generazioni che per il momento non si intravede.
L’Agenzia delle Entrate sta da anni raccogliendo dati sul valore di mercato degli immobili, indicati nei rogiti notarili con l’avvertenza tranquillizzante che l’imposta verrà esatta solo sul valore risultante dai dati catastali. Quale momento migliore, allora, prima che si inneschi la caduta dei prezzi, per aggiornare gli estimi catastali in modo da far aumentare le entrate ad aliquote invariate. Per l’Agenzia delle Entrate la rivalutazione conseguente dell’Imu sarebbe un gioco da ragazzi. Fisco semplice. Semplice da calcolare e accertare. Un consistente aumento del gettito senza doversi fare carico di troppe incombenze accertative come per l’evasione fiscale anche sulla casa.
L’invarianza di gettito come tetto alla misura è solo un espediente per indorare momentaneamente la bomba a orologeria della revisione degli estimi. Pazienza se il balzo dell’Imu accelera la perdita di valore del risparmio investito nella casa. È una correlazione antagonista. Più cresce l’Imu, più diminuisce il valore di mercato delle abitazioni. In ogni modo grazie ai nuovi estimi il gettito sarebbe destinato a rimanere stabile. In caso di mercato declinante, un eventuale successivo adeguamento degli estimi al ribasso sarebbe un ardito sforzo di immaginazione.
Bene. Al fisco, dunque, la revisione degli estimi non dispiace. L’Agenzia delle Entrate è pronta, ma non ha certo la capacità politica di imporla. Draghi ha appena ribadito che non il momento di aumentare le tasse e che anzi il suo Governo è intenzionato a ridurle. Il presidente del Consiglio parla chiaro. Non dice tutto quello che pensa, ma quello che dice è di senso univoco. Eppure, si legge di una sua presunta ostinata volontà – o almeno del suo Governo – a procedere alla revisione degli estimi alla quale seguirebbe quasi come un inevitabile effetto collaterale l’aumento dell’Imu. Un destino ingrato in verità, cui non ci si potrebbe sottrarre, in quanto “è l’Europa che ce lo chiede”.
Il ritornello gira con pervicacia, ma è radicalmente infondato. L’Unione Europea non ce lo chiede per la semplice ragione che non può chiederlo. Nelle materie di sua competenza secondo i Trattati non rientra l’imposizione fiscale. Magari così fosse! Perché si potrebbe mettere fine alla competizione fiscale al ribasso sulle imposte sui capitali che favorisce alcuni Paesi (Irlanda, Olanda e Lussemburgo) e ne colpisce altri, tra cui in primis il nostro ma anche Germania e Francia. Ma non è così. E le istituzioni e i vertici politici dell’Unione conseguentemente e correttamente si guardano bene dall’entrare a gamba tesa per chiederci di aggiornare i valori catastali per aumentare le imposte sulla casa.
La revisione degli estimi non è dunque un precipitato necessitato di Bruxelles e neppure una condizionalità del Pnrr, che, sdoganato da Draghi con una cortese quanto brusca interlocuzione telefonica con la von der Leyen il 25 aprile scorso, viaggia nella fase attuativa. Le condizionalità del Piano ci sono ovviamente, ma sono tutte interne e attinenti alla sua corretta attuazione in ordine alla spesa delle risorse trasferite dall’Unione. Il che è giusto e ovvio. Solo qualche “country study” degli uffici studi interni alla Commissione o dell’Ocse – ove c’è tanto dispiego di documenti – sembra far cenno al catasto. Si tratta di timide “raccomandazioni”. Suggerimenti, spesso caldeggiati dagli stessi destinatari degli stessi, privi di alcuna cogenza normativa o valenza politica. Insomma, “lo vuole l’Europa” non regge.
Quello che l’Europa ci chiede e può fondatamente chiederci è altro. Il rispetto dei parametri di stabilità di finanza pubblica. In sintesi, una riduzione del deficit e del debito. E in effetti, l’art. 17 del regolamento sul funzionamento del Pnrr condiziona l’assistenza finanziaria del Fondo – contributi a fondo perduto – all’impegno da parte del Paese che li riceve al rispetto delle priorità specifiche individuate nell’ambito del Semestre europeo tramite cioè la procedura di controllo, da parte dell’Unione e dei suoi Stati membri, della congruità della redazione delle Leggi di bilancio nazionali con i parametri del Patto di stabilità e di crescita approvato a Maastricht. Parametri che, per quanto sospesi e flessibilizzati per effetto della pandemia, prevedono comunque l’assunzione di “misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo”.
“Disavanzo eccessivo”. È questo il terreno sul quale bisogna attivarsi se non si vuole correre il rischio della sospensione almeno parziale dell’assistenza finanziaria e soprattutto di un conflitto duro a Bruxelles con i Paesi frugali tra i quali forse anche la Germania post Merkel. Bisogna perciò dare un segnale di inversione di rotta. La riduzione del disavanzo pubblico si può ottenere soprattutto riducendo la spesa pubblica piuttosto che aumentando le tasse. Sprechi e regalie occultate nei capitoli di bilancio sempre più opachi grazie alle modifiche della legislazione finanziaria con la legge 1/2012. Prezioso al riguardo ancora il rapporto, “rassegnato” al Governo, sempre nel 2012, dai proff. Giavazzi e D’Alberti, ora nello staff tecnico del Governo Draghi, sulla giungla degli incentivi settoriali, dei quali, si ipotizzava, un taglio di circa 20 miliardi di euro. Sarebbe il momento giusto per tirarlo fuori da cassetti di palazzo Chigi e servirsene per la redazione in corso della Legge di bilancio. Di tagli alla spesa pubblica però non se ne parla proprio. C’è il sospetto che chi ne dovrebbe fare le spese preferisce – si capisce certo – spostare il discorso della riduzione della spesa pubblica all’aumento di imposte generiche e generali come l’Imu che colpiscono i cittadini in quanto tali, cioè soggetti privi di influenza corporativa o categoriale, a differenza dei possibili destinatari dei tagli agli incentivi.
Per indorare la pillola degli estimi, in molti quotidiani, dispacci di agenzie e siti ben informati, appaiono accostamenti tra aumento dell’Imu e riduzione delle aliquote Irpef, oppure si correla l’aumento dell’Imu alla riduzione di quell’imposta ghigliottina per le piccole e medie imprese che è l’Irap. L’accostamento suggerisce, al rassegnato lettore contribuente del ceto medio che si vorrebbe difendere, l’idea di una necessaria compensazione tra aumento dell’Imu e possibile riduzione di altre imposte per il ceto medio. Si cerca in qualche modo di smussare, ma l’onere di quadrare i conti graverebbe alla fine sempre sul ceto medio.
Altro espediente per sviare l’attenzione sarebbe l’esenzione dall’Imu della prima casa o casa di abitazione. Gli italiani sono all’80% proprietari della casa in cui abitano e così non verrebbero toccati. Si tratterebbe solo di una minoranza di ricchi proprietari di almeno due case che sarebbero chiamati a un salasso fiscale sulle seconde. Ma non è proprio così. Molto spesso i proprietari della casa di abitazione hanno anche una seconda casa. Magari in località di origine della famiglia, o case di vacanze in zone a bassa intensità di residenti e nelle quali in genere i Comuni applicano le aliquote ai livelli più elevati per far pagare ai proprietari delle seconde case che non votano il maggior contributo alle casse comunali della cui spesa usufruiscono però solo i residenti elettori. Grazie all’entrate dell’Imu, in molti piccoli paesi il Comune è diventato il principale datore di lavoro. Per far cassa in molte località in via di desertificazione molti comuni offrono case abbandonate al prezzo simbolico di un euro. Che dire? per arginare l’andazzo bisognerebbe far votare alle amministrative anche i proprietari delle seconde case in base al principio costitutivo dello stato di diritto. No taxation without representation.
L’aumento degli estimi delle prime case – è stato fatto notare giustamente – avrebbe effetti sull’Isee e quindi potrebbe provocare l’esclusione da benefici vari di assistenza sociale. Si deve aggiungere inoltre che la rivalutazione della rendita catastale si ripercuoterebbe sull’aumento del calcolo dell’Irpef. In un’intervista su questo quotidiano abbiamo denunciato l’incostituzionalità e l’intrinseca mancanza di equità dell’Imu quale imposta patrimoniale. È il caso di accennare anche gli effetti depressivi sul mercato immobiliare che conseguirebbe dalla rivalutazione delle rendite catastali. Vistose distorsioni. In sintesi, se si cambia residenza si perde l’esenzione sulla prima casa. Se per motivi di lavoro o altro si cambia città bisogna vendere casa. Non è possibile secondo la legislazione vigente prendere in affitto un’abitazione nel comune ove si trasferisce la residenza, conservando al contempo l’esenzione sull’unica casa di proprietà che si lascia, magari affittandola per pareggiare i conti. Se si vuole conservare il beneficio fiscale sulla prima casa bisogna vendere e ricomprare una “nuova” prima casa. Conservarne la proprietà, magari perché è la casa di famiglia o per altre ragioni personali o affettive, rischia di divenire un lusso che si paga caro. La conseguenza è la trasformazione degli italiani in una popolazione di lumache che si spostano portandosi dietro la casa sulle spalle come una chiocciola.
Ovviamente l’aumento degli estimi, facendosi sentire soprattutto nei centri storici e nelle periferie di pregio, sposterà la convenienza ad acquistare verso nuove zone periferiche. Non quelle attuali e degradate che rimarranno tali. Verso nuove zonizzazioni, appannaggio delle grandi imprese costruttrici che godono già dell’esenzione Imu sulle abitazioni costruite e messe in vendita a differenza degli altri proprietari che devono continuare a pagare l’Imu sulle case invendute. Insomma, qualcuno ci guadagnerebbe. Non solo in verità le (grandi) imprese di costruzione, ma anche le varie attività di intermediazione nella compravendita degli immobili che non dovrebbero dolersi dell’accresciuta frequenza delle transazioni immobiliari. Anche la concessione di mutui ipotecari da parte delle banche registrerebbe un incremento positivo. Già ora le banche adottano un approccio prudenziale tarando l’importo del mutuo al 70% del valore di mercato dell’immobile, scontando quindi il rischio di una riduzione, nell’arco della durata del mutuo, mediamente del 30% del valore di acquisto. Una misura prudenziale per garantire la continuità del flusso di capitale riveniente dai mutui che a sua volta alimenta il mercato finanziario dei derivati.
Se la forbice tra valori calanti delle case e costo dei mutui aumenta, però, il rischio di una bolla finanziaria generata dal credito per l’ immobiliare – tipo subprime – potrebbe riguardarci da vicino. L’aumento dell’Imu e il prevedibile aumento dei tassi di interesse per il preannunciato tapering della Bce nei prossimi due anni, in assenza di una forte ripresa dell’economia nazionale, potrebbe innescare un processo di avvitamento al ribasso dei prezzi delle case. Non sarà una nuova Lehman Brothers e neppure la bolla cinese del mattone in formazione su Evergrande. Sicuramente a farne le spese però sarà il tanto amato, quanto tartassato, ceto medio, risparmiatori, proprietari di prime e seconde case.
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