Sarà un altro banco di prova decisivo la riforma dell’ordinamento giudiziario, il nuovo metodo di elezione del Consiglio superiore della magistratura e quindi la complessiva riforma di cui si parla dai tempi del “caso Tortora” (anni Ottanta del secolo scorso). Lo sarà per il governo, ma più in generale per il Paese e per tutto quello che è accaduto in questi ultimi trent’anni di storia italiana.



Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, vuole concludere la fase politica della sua vita anche con una riforma di questa portata,  perché è l’Europa che ce lo chiede e l’opinione pubblica italiana che lo richiede, dopo l’incredibile perdita di credibilità della magistratura. 

Draghi, quindi, vuole affrontare tutto quello che c’è da affrontare, ma si comprende che anche lui accusa (diciamo così) dei “momenti di stanchezza”.



Lo si capisce in conferenza stampa dalle domande che gli fanno i giornalisti: sarà lei il prossimo leader di un centro che in molti vogliono? La risposta  è secca e perentoria: “lo escludo nel modo più assoluto”.

Draghi è oggi a capo di un governo che ha più fibrillazioni di quando è stato incaricato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. I problemi sul tappeto, gli ostacoli da affrontare sono molti e si comprende che uno dei più complicati è proprio quello che espone il Guardasigilli Marta Cartabia, che nella conferenza stampa di ieri stava alla destra del presidente e veniva chiamata in causa di più che il ministro all’economia Daniele Franco.



Non a caso il Consiglio dei ministri era slittato di qualche ora, proprio perché in tanti volevano leggere ancora e complessivamente il testo della riforma Cartabia.

Ha spiegato il ministro della Giustizia: “Sugli obiettivi della riforma c’è un’unanimità di vedute in Parlamento, basterebbe misurare l’applauso al presidente Mattarella quando ha parlato della necessità della riforma. E c’è stata condivisione assoluta sui nodi della riforma su cui intervenire, come ad esempio le porte girevoli per i magistrati che entrano in politica. Ci sono state differenze, alcune ancora permangono nel governo e saranno affrontate in Parlamento sulla gradazione delle misure”. 

Marta Cartabia precisa qualche punto decisivo: “I magistrati che entrano in politica per via  elettorale poi non possono tornare a svolgere funzioni giurisdizionali. La modifica è stata introdotta oggi  in Consiglio dei ministri”.  E su questo punto si assiste veramente a una svolta, dopo i “passaggi” avvenuti in questi ultimi anni in un modo quasi tragicomico.

Se questa impostazione garantisce meglio i rapporti tra politica e giustizia, più complessa appare la riforma della elezione e della composizione del Csm. 

La composizione del plenum prevede 3 membri di diritto (presidente della Repubblica, primo presidente e procuratore generale della Cassazione) e poi 20 togati e 10 laici. Quindi una serie di meccanismi elettorali molto tecnici e che dovrebbero limitare il potere che hanno esercitato il potere delle correnti. 

Ma occorrerà mettere alla prova i nuovi meccanismi, rilevando che però il sorteggio, invocato da molti, non sembra essere stato preso in considerazione.

È evidente che la questione delle cosiddette “porte girevoli”  (entrare e uscire a piacimento dalla magistratura alla politica) e l’elezione del Csm sono una parte importante, ma l’impressione è che siamo solo al primo passo. 

Lo fa comprendere con una dichiarazione la senatrice Giulia Bongiorno della Lega: “È solo un punto di partenza. Il testo dovrà essere migliorato in Parlamento così come ha assicurato lo stesso Mario Draghi. Ma un cambiamento radicale sarà possibile solo grazie ai referendum”.

Qui si apre il discorso più ampio sulla “questione giustizia” che l’Italia ha vissuto negli ultimi trent’anni. Nel progetto di riforma c’è pure un’apprezzabile “divisione delle funzioni” nel processo, cioè la terzietà del giudice con la difesa e l’accusa che, cercando nel processo la verità dei fatti, secondo i canoni di una democrazia che non cede all’abuso del “giudice che fa lo stesso mestiere del pubblico ministero” e in più rispettando il principio della presunzione di innocenza.

Ma occorre ricordare che la “separazione delle funzioni” è una sorta di passo avanti, un primo passo, ma non il compimento di quello che un magistrato come Giovanni Falcone e tutta la tradizione democratica che vive nella giustizia prevede: cioè la completa “separazione delle carriere” come ad esempio chiedono i firmatari dei referendum e che in Italia sostennero per tutta la vita uomini come Marco Pannella, i socialisti riformisti e l’ala riformista cattolica.

Se ci si guarda intorno, nei Paesi democratici dell’Occidente, la separazione esiste ovunque e solo il Portogallo, uscito dalla dittatura di Salazar, ha scelto appena ha potuto la separazione delle funzioni. Insomma, un passo avanti, ma che deve essere ancora più incisivo.

Saranno i referendum a dare il colpo finale alla riforma della giustizia italiana? È probabile che questo possa avvenire, guardando alle tendenze prevalenti nell’opinione pubblica, alla scarsa credibilità della magistratura arrivata inesorabilmente sotto i colpi dei “casi Palamara”, alle incredibili lotte intestine, alle rivelazioni emerse e alle palesi ingiustizia che si sono viste in questi anni. C’è chi sostiene che la stessa stragrande maggioranza della magistratura voglia una riforma che garantisca un autentico stato di diritto.

Diceva ieri Carlo Nordio, pubblico ministero in pensione: “Va riscritta la storia di questi ultimi trenta anni. Tangentopoli era la malattia e Mani Pulite la cura. Anche se quest’ultima, come spesso capita, si è rivelata più dannosa della prima”. 

Presto uscirà un libro di Carlo Nordio, Giustizia ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura. Insiste Nordio: la giustizia italiana è al capolinea. Il discredito del Csm, le lotte intestine tra correnti, le ulteriori rivelazioni di Palamara, l’incertezza del diritto. A causa delle toghe politicizzate, occorre veramente una rivoluzione nel mondo giudiziario.

L’impressione è che, nonostante molte convergenze in Parlamento, la determinazione di Draghi e l’azione di Marta Cartabia, una grande riforma, che porti l’Italia all’altezza delle grandi democrazie occidentali, sarà una battaglia non facile.

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