Dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri, l’iter del ddl costituzionale con la separazione delle carriere e l’istituzione del doppio Csm è di fatto cominciato, ottenendo subito l’ostracismo dell’Anm. Una reazione prevedibile, dato che la tradizione inquisitoria ha plasmato la formazione, l’approccio e la mentalità dei nostri magistrati. L’evoluzione dei codici ha fatto il resto. Nonostante “la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo abbia posto a base del nostro ordinamento il principio della preminenza del diritto, rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali della persona, ed espressione della sovranità del diritto contro l’arbitrio”. Sono le parole di Vitaliano Esposito, già procuratore generale presso la Corte di Cassazione, con il quale Il Sussidiario ha approfondito – dopo il primo intervento a caldo – i termini della sfida culturale, e non solo politica, che attende la riforma della giustizia.



In una recente intervista rilasciata a questo giornale, lei, che è stato il vertice gerarchico della pubblica accusa, ha affermato che sul tema della separazione delle carriere è necessario che cambi la cultura delle toghe. Posizione non così diffusa fra i suoi colleghi.

Non sono il solo a dirlo. Lo ripeteva il professor Giuliano Vassalli quando da ministro della Giustizia era riluttante a sottoscrivere il nuovo codice – che purtroppo passerà alla storia con il suo nome –, ritenendo che per evitare il fallimento del nuovo strumento fosse necessario non solo intervenire con riforme ordinamentali, ossia la separazione delle carriere, ma anche cambiare anche “la testa” dei magistrati.



Non riesco a seguirla. Perché mai colui che aveva introdotto nella nostra cultura il principio del “diritto dell’imputato di difendersi provando” si sarebbe dovuto preoccupare di una riforma che attuava e rendeva concreto proprio tale principio?

Vede, Vassalli era ben conscio – da quel fine giurista che era – dei rischi ontologicamente insiti in ogni sistema di diritto penale, che, da strumento di protezione dei beni ritenuti meritevoli di tutela, può inopinatamente trasformarsi nel più micidiale arnese di oppressione dei diritti fondamentali della persona. E questo rischio era certamente sussistente al momento del passaggio da un procedimento di tipo inquisitorio, proprio degli ordinamenti di civil law, ad un procedimento di tipo accusatorio, caratteristico degli ordinamenti di common law.



Presidente, lei in parallelo all’intensa attività giudiziaria ha quasi sempre prestato la propria collaborazione ad organismi nazionali o sopranazionali nel settore della cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale e dei diritti umani. Parla forse di culture diverse?

Sì. Come lei ben sa, dovremmo risalire allo spartiacque del 1215, quando si verificarono due storici avvenimenti, che ci fanno ben comprendere la causa dei diversi sviluppi culturali che ne scaturirono. Quell’anno in Inghilterra, sul prato di Runnymede nella Contea di Surrey, i baroni inglesi, a nome anche di tutti gli uomini liberi del Regno, costrinsero il loro re Giovanni, detto “senza terra”, ad emettere la Magna charta libertatum, primo documento della storia che segna una limitazione del potere sovrano. Ed è in questa Carta che si ritrovano le prime tracce del principio della preminenza del diritto contro l’arbitrio (la Rule of law), del principio, cioè, che impone al sovrano di sottomettersi alla legge. Potere sovrano che, sul Continente, fu immediatamente riaffermato lo stesso anno da Innocenzo III – zenit assoluto del potere papale – che scomunicò Re Giovanni, revocò la Carta e, imponendo ai vescovi i 70 canoni da lui formulati del IV Concilio Lateranense, tra cui quello che prevedeva la repressione dell’eresia, consolidò l’assolutismo ed i susseguenti abusi dell’Ancien régime. E L’opera fu completata dal Tribunale della Santa inquisizione. Al principio della preminenza del diritto veniva quindi opposto il primato della legge: dura lex sed lex. Rito accusatorio, da un lato; rito inquisitorio dall’altro; giuria, da un lato; prova legale, dall’altro; habeas corpus, da un lato; tortura, dall’altro; il giorno e la notte; la luce e le tenebre.

E che cosa avvenne dopo?

Nei secoli seguenti, mentre i giudici di common law stabilirono regole comuni per combattere la tortura e la formazione di prove sotto l’effetto della tortura, queste pratiche, sul continente, accompagnate da differenti forme di ordalie, restarono abituali. Da un lato, quindi, il regno del diritto che limita i poteri del sovrano, dall’altro il regno del sovrano, che detta le leggi che vuole.

Ma quali sono le conseguenze di questo diverso sviluppo culturale sull’applicazione del nuovo codice? 

Lei ben comprende come non sia certo facile scrollarsi di dosso la forza della tradizione inquisitoria, anche se certamente filtrata ed affinata nel corso dei secoli. L’ordinamento continentale europeo è sempre stato di civil law ed ancorato al principio del primato della legge. È rimasto del tuto ignoto a questo sviluppo culturale il principio della preminenza del diritto, e con esso lo spirito che lo anima, ossia della fairness, della correttezza processuale. Ritengo, ma non sono certamente il solo a pensarlo, che sulla base di questo background culturale, una parte della magistratura – non importa se ideologicamente connotata ed operativamente imbeccata – animata da un sacro furore, profittò del rinvigorito fuoco inquisitorio che il nuovo strumento ben alimentava, per cercare di stroncare quell’intollerabile sistema di corruzione eretto a strumento di sopravvivenza dell’arena politica e determinò l’epilogo traumatico della cosiddetta “prima Repubblica”.

Ma perché lei oggi insiste su questa distinzione, ai più incomprensibile, dei principi della preminenza del diritto e del primato della legge? 

Perché, a dispetto della circostanza che il legislatore, con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, abbia posto a base del nostro ordinamento il principio della preminenza del diritto, rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali della persona, ed espressione della sovranità del diritto contro l’arbitrio, gran parte della nostra magistratura è pervicacemente legata al principio del primato della legge, sovente espressione della maggioranza parlamentale, quando non addirittura della “Ragion di Stato”.

Le chiedo, avendo coronato la sua carriera con rilevanti esperienze europee, quali sono le conseguenze di questo diverso atteggiamento culturale?

Non è stata percepita l’autentica rivoluzione culturale operata dalla Convenzione europea. Ed è stato partorito il mostro della proterva distinzione tra giudici garantisti – che di tale qualifica si gloriano – e giudici giustizialisti, che tale qualifica rifiutano, asserendo orgogliosamente di applicare solo la legge. Questi ultimi sono gli epigoni del primato della legge – dura lex, sed lex – e le loro decisioni cadono sovente sotto le mannaie del giudice sovranazionale, quando il condannato trova un difensore in grado di portare quel caso a Strasburgo. Gli altri non hanno neanche una stella polare cui drizzare la barra delle loro decisioni, le quali sovente cadono, nel corso delle impugnazioni, per la loro contrarietà alla dominante giurisprudenza, ispirata anch’essa al primato della legge.

Come potrebbe riassumere la complessa situazione attuale, a prima vista inestricabile?

Il codice Rocco di tipo sostanzialmente inquisitorio e dominato dal principio del primato della legge era stato sostituito da un codice che, nelle intenzioni dei suoi compilatori, doveva essere di tipo accusatorio e dominato dal principio della preminenza del diritto, mentre nella sua concreta applicazione si è rilevato di tipo inquisitorio e pur sempre dominato dal principio del primato della legge. E per finire abbiamo una Corte costituzionale, ispirata anch’essa al principio del primato della legge, che non riesce a dialogare con la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, animata dal principio della preminenza del diritto. E tutto ciò nel quadro di una Unione Europea, erede di Creonte e del suo primato della legge, caduta sotto il maglio di Papa Ratzinger, nello storico discorso pronunciato dinanzi al Parlamento della sua patria tedesca. Discorso che dovremmo continuamente leggere e rileggere.

(Antonio Pagliano)

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