14 milioni di persone – tanti sono gli italiani che fanno sport, in senso ampio – si troveranno immersi in una situazione di cambiamento che chiamare fluida è ottimistico. È la più immediata, inevitabile conseguenza di una riforma di cui poco si parla ma che dal 1° luglio è già operativa. Sono ancora molti gli interrogativi, ma di certo gli adempimenti fiscali, previdenziali, assicurativi che si riverseranno sulle società sportive non saranno a costo zero e appesantiranno realtà già provate dalla pandemia e/o da come è stata gestita.
È innegabile comunque che questa riforma, sbandierata come rivoluzionaria dai governi che l’hanno impostata, ripropone i soliti rattoppi ma niente di nuovo davvero.
Che lo sport abbia bisogno di una riforma è fuori di dubbio: da gran tempo è impantanato in una ridda di problemi. Due per tutti: la collocazione giuridico-fiscale della società sportive (circa 170mila); e l’inquadramento del lavoratore sportivo (5-600mila addetti, in vari ruoli).
La questione non è di facile affronto perché il mondo dello sport è estremamente variegato. Limitandosi ai non professionisti, si contano polisportive con decine di squadre, centinaia di atleti giovani e non, importanti strutture in gestione, bilanci di milioni di euro; tanto volontariato ma anche numeroso personale che vive esclusivamente di quel lavoro.
Accanto a queste, proliferano tante strutture, nate dalla buona volontà di appassionati, magari con il sostegno del piccolo comune che mette a disposizione un campo e la palestra della scuola, ovvero sorte all’ombra del campanile di un parroco dinamico. Qui tutti fanno di tutto, di euro ne girano pochi, ma costituiscono una cellula vitale di quel contesto.
Sta di fatto che chi mise mano inizialmente alla riforma non seppe – o non volle – impegnarsi in una comprensione approfondita del fenomeno, ma preferì seguire il metodo più consono alla propria impostazione: controllare la situazione per arginare il lavoro nero e l’evasione fiscale. Meritoria preoccupazione, perché essi sono sicuramente presenti nel mondo sportivo e nei suoi dintorni (costituiti da esercizi commerciali camuffati da società sportive), favoriti da normative che non hanno seguito il mutare dei tempi. Ma limitarsi a questo è una battaglia di retroguardia perduta in partenza.
Sorprende perciò che un Governo che si sta qualificando per capacità prospettiche innovative – basti pensare al “Piano Mattei” sul problema migranti – si preoccupi solo di smussare gli spigoli e limitare il peso delle ricadute di una legge impostata secondo princìpi che non sono certo i suoi; tra i quali, innanzitutto, il realismo: l’approccio ai fenomeni per come si presentano e non come si vogliono interpretare ideologicamente.
Nel presente caso la prima evidenza è che le società sportive in Italia svolgono un ruolo insostituibile nell’educazione della gioventù. E non certo da ieri, ma da oltre un secolo, in crescita esponenziale dal dopoguerra; con immani sacrifici e straordinari risultati. Non solo agonistici – peraltro innegabili – ma formativi a tutto tondo. Emblematico quanto accade alla figura dell’educatore: mentre nella scuola l’autorevolezza del prof è in caduta libera, l’allenatore è sempre di più guardato come importante punto di riferimento, sia dai giovani atleti che dalle famiglie.
Il movimento sportivo italiano è frutto maturo di una mobilitazione spontanea, sospinta da passione genuina, capace di aggregazione in modo unico. Una vitalità che forse ha infastidito, perché troppo libera e “popolare”, chi per cultura ha deciso che si debbano intendere solo i propri percorsi intellettuali: una riduzione molto utile come strumento di egemonia, sociale e politica. Allo sport perciò non si è mai voluto aprire la porta del salotto buono, primo fra tutti quello della scuola, dove gli è stato riservato uno spazio francamente imbarazzante.
Ma dopo tante dimostrazioni di capacità, serietà, flessibilità, e straordinari successi malgrado le limitatissime risorse, al movimento sportivo andrebbe riconosciuto un posto non residuale, ma al contrario di tutto rispetto, una collocazione alla pari come soggetto di cultura, capace perciò di contribuire responsabilmente alla realizzazione di un sistema educativo nazionale integrato, dove la scuola mantenga il posto centrale, ma in modo molto più flessibile.
Esattamente nella linea di pensiero che ha generato l’idea del Liceo Made in Italy: dare spazio e rilievo all’ anomalia italiana per eccellenza, tanto “incomprensibile” quanto vincente nelle sfide mondiali. Genialità, flessibilità, capacità di coinvolgimento: soggetto educativo a pieno titolo quindi, che va compreso, riconosciuto, inserito nel contesto complessivo, chiedendo contemporaneamente alla scuola di aprirsi, e a questi soggetti “popolari” di entrare in dialogo responsabile e costruttivo con l’istituzione.
Una svolta che non sarebbe esagerato chiamare storica. Ma, riguardo ad una riforma che investirà trasversalmente l’intera popolazione, non è questo il piglio che ci si aspetterebbe da un Governo come quello attuale?
Solo allargando con decisione l’orizzonte si potranno anche trovare per le società sportive formule adeguate all’inquadramento di chi ci lavora e valutare in modo consono la loro tassazione: da “agenzie educative” quali sono.
Non siamo abituati a chiamarle così, ma non sarebbe ora che ci rendessimo conto che è come ad una vera e propria scuola di vita – fisica ma anche intellettuale e morale – che ad esse guardiamo oramai abitualmente?
Il Governo faccia allora la parte che spetta alla politica: cogliere i percorsi virtuosi generati dalla società, sostenerli e dargli forma adeguata nelle istituzioni.
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