Ritorniamo a parlare di riforma fiscale e in maniera più peculiare: d’altra parte non si può, volenti o nolenti, non farlo, poiché è il pressante tema politico attuale. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, lo scorso 5 ottobre ha esposto la relazione accompagnatoria al disegno di legge-delega premettendo che «l’attuale sistema fiscale è stato concepito cinquant’anni fa, in un contesto economico-sociale completamente diverso e, pur avendo ricevuto ripetuti aggiustamenti (anzi, anche a causa di questi), ora ha bisogno di una riforma complessiva». Poi ha evidenziato che il ddl «è tra le iniziative chiave identificate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza per dare risposta alle debolezze strutturali del Paese e in tal senso costituisce parte integrante della ripresa che si intende innescare anche grazie alle risorse europee».
Il ddl non entra nel particolare delle singole tematiche, indica soltanto alcuni principi e parametri direzionali, come accade per ogni legge-delega e l’ordine di partenza tratteggiato appare tessuto più largamente che in altre occasioni. Si tratta, come ha detto lo stesso Draghi, «di una scatola da riempire». Ma di che cosa stiamo parlando? Le linee fondamentali della riforma, il cui disegno di legge delega si compone di 10 articoli, si possono così riassumere: la razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario, da attuarsi anche attraverso la riduzione degli adempimenti a carico dei contribuenti e l’eliminazione dei cosiddetti “balzelli” con entrate insignificanti per l’Erario; la gradualità del sistema, che va salvata andando nella direzione indicata dalla Costituzione che parla di giustizia ed equità; la riduzione dell’evasione ed elusione fiscale. Il tutto in un sostanziale sviluppo del sistema economico, per mezzo di un incremento della funzionalità dell’organizzazione del Fisco, insomma meno gravitazione sui redditi provenienti dall’utilizzazione dei componenti della produzione in generale.
Ma andiamo ad analizzare le 4 voci, secondo noi più significative e per così dire “intriganti” per il contribuente medio, di questo ddl: Irpef, Iva, Imu e catasto.
Per quanto riguarda il capitolo Irpef, si manifesta l’impegno al completamento del “sistema duale” termine quasi a tutti, incomprensibile. Si tratta semplicemente di considerare operativamente da un lato i redditi da capitale, per cui è prevista la tassazione proporzionale, cioè con un’aliquota uguale per tutte le tipologie di contribuenti, e dall’altro i redditi da lavoro, con un progressivo abbattimento delle aliquote effettive medie e marginali dell’Irpef. Il fine è quello di incentivare l’offerta di lavoro, in particolare nelle classi di reddito dove si concentrano i secondi percettori di reddito e i giovani. Si tratta di correggere quei salti di aliquota, ad esempio lo “scalone” dal 27% al 38%, che puniscono in particolare le classi di mezzo e di moderare il “cuneo fiscale” per dipendenti e datori di lavoro. Si presagisce oltre a ciò la rettifica delle deduzioni dalla base imponibile e delle detrazioni d’imposta come pure la tassazione sul risparmio.
Con la riforma l’Esecutivo, punta a razionalizzare la struttura dell’Iva “con particolare riferimento al numero e ai livelli delle aliquote e alla distribuzione delle basi imponibili tra le diverse aliquote allo scopo di semplificare la gestione e l’applicazione dell’imposta, contrastare l’erosione l’evasione, aumentare il grado di efficienza in coerenza con la disciplina europea armonizzata dell’imposta”. Si immagina poi una tassazione sui consumi del petrolio, energia elettrica, e via dicendo, in linea con il Green deal europeo per «contribuire alla riduzione progressiva delle emissioni di gas climalteranti e alla promozione dell’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili ed ecocompatibili». Ci chiediamo a proposito, cosa vuol dire tutto questo: ci sembra globalmente un po’ generico e che può voler dire tutto e niente. Non vengono specificate né aumento o diminuzioni di aliquote stabilite in percentuale, e le altre migliaia di prodotti che fine faranno a livello d’imposte indirette? Si sa che l’aumento o la diminuzione di un solo punto sulle varie percentuali di imposta, influiscono sulle nostre tasche e non di poco.
L’Imu relativa agli immobili continuerà a essere calcolata non in base ai valori di mercato ma con le vecchie rendite catastali, assicura il presidente del Consiglio, ed è destinata ad affluire sempre più ai Comuni piuttosto che allo Stato, in prospettiva fino alla sua totalità. E per l’aggiornamento di fatto, ci richiederanno in ogni caso, cinque anni.
Vale un ambito a parte il capitolo del catasto, (già da noi ampiamente commentato su queste pagine) fonte di quasi tutte le polemiche politiche. Palazzo Chigi, in una nota, chiarisce che «è prevista l’introduzione di modifiche normative e operative dirette ad assicurare l’emersione di immobili e terreni non accatastati. Si prevede, inoltre, l’avvio di una procedura che conduca a integrare le informazioni sui fabbricati attualmente presenti nel catasto, attraverso la rilevazione per ciascuna unità immobiliare del relativo valore patrimoniale, in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato e introducendo meccanismi di adeguamento periodico». E poi: «Le nuove informazioni non saranno rese disponibili prima del 1° gennaio 2026 e intendono fornire una fotografia aggiornata della situazione catastale italiana». Così «gli estimi catastali, le rendite e i valori patrimoniali per la determinazione delle imposte rimangono quelli attuali. Le nuove informazioni raccolte non avranno pertanto alcuna valenza nella determinazione né delle imposte, né dei redditi rilevanti per le prestazioni sociali». E si precisa: «Nei giorni scorsi si è teso a confondere, ma una decisione è costituire una base di decisione adeguata, e ci vorranno cinque anni, un’altra decisione è cambiare le tasse. Noi la seconda decisione non l’abbiamo presa. Solo nel 2026 se ne riparlerà».
Cosa vogliamo ribadire a riguardo: in primo luogo, siamo sempre più convinti che la revisione del catasto è un tema scabroso e difficile, non è da anni citato e non è tra i punti affrontati nella relazione delle commissioni Finanze di Camera e Senato. Pensiamo e forse non ci sbagliamo che probabilmente lo stesso Draghi si è reso conto che l’avventura di tale battaglia e ardua e che le strutture preposte, se è possibile farlo, non sono confacenti allo scopo. Tutti stragiurano che l’azione che si vuole mettere in atto (individuazione di fabbricati fantasma, aggiornamento delle rendite risalenti all’800, il calcolo corretto dell’Imu, ecc.) è rivolta a evitare l’evasione di tutte le imposte sugli immobili in atto attualmente. Ma a che serve tutto questo lavoro se poi si dice che la base imponibile rimarrà invariata? Oppure dopo il 2026 si può cambiare anche la base imponibile sui tributi che riguardano gli immobili? E se i prossimi Esecutivi, rimetteranno in ballo la prima casa? Non è che Draghi vuol spostare nel tempo e ai prossimi Governi la “patata bollente”?
Tutte domande lecite: forse ci vorrebbe una “sfera di cristallo” per rispondere. Noi però desideriamo vigorosamente affermare che la querelle è difficilissima d’affrontare, ma che le tasse giuste, e anche quelle un po’ meno, vanno doverosamente pagate e che sino a quando l’evasione fiscale non sarà seriamente intaccata non è possibile parlare di equità o di pace sociale. Ma la “pulce all’orecchio” non è poi così inattesa né ora, né in futuro!
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