La riforma del fisco è una delle priorità cui il nuovo governo intende porre mano, attuando un intervento complessivo, come fece Visentini nel 1972, teso a rivedere ruolo e obiettivi di alcune imposte. Dopo aver affrontato i problemi legati all’Irap, alle tasse sugli immobili e alle imposte di successione, con il professor Giuseppe Di Gaspare, ordinario di Diritto dell’economia all’Università Luiss di Roma, affrontiamo altri due nodi delicatissimi: la lotta all’elusione e all’evasione fiscale.
Se le imposte patrimoniali hanno effetto distorsivo e sono controindicate, come è possibile recuperare il gettito con le sole imposte sul reddito?
Il regime di favore riguarda il capitale finanziario – e qui si può parlare effettivamente di grandi fortune – non solo per la scomparsa dell’imposta di successione, ma anche per il regime tributario sul reddito generato dal capitale finanziario e dagli investimenti speculativi. I dati internazionali ci dicono che il rapporto nella suddivisione della ricchezza negli Stati Uniti è simile, ormai da dieci anni, a quello dell’Arabia Saudita. Anche nella Ue la tendenza alla polarizzazione della ricchezza a scapito del ceto medio si è accentuata molto, ad eccezione della Germania e dei paesi scandinavi. Per cui un confronto con quei sistemi sarebbe in effetti utile. Il punto centrale riguarda come affrontare non solo l’evasione, ma anche l’elusione fiscale.
Cosa si intende per elusione fiscale?
In sintesi, un modo di non pagare le tasse aggirando l’obbligo impositivo con espedienti giuridici e fiscali leciti o quantomeno tollerati. Una pratica estesasi con la globalizzazione dei mercati finanziari, che ha portato molti paesi occidentali non solo ad abrogare l’imposta di successione, ma a mitigare l’imposta su guadagni e plusvalenze finanziarie con espedienti giuridici vari, e quindi legittimi, perché voluti appunto dal legislatore.
Può citare un esempio di elusione fiscale?
I gruppi finanziari transnazionali si sottraggono all’imposta nazionale dei redditi facendo emergere i profitti e gli utili realizzati in uno Stato in un altro Stato, che mette a disposizione sistemi fiscali più accoglienti, stabilendovi la società capogruppo. In questo modo, ripartendo arbitrariamente il costo delle prestazioni e degli scambi all’interno del gruppo, sovraccaricano i costi delle filiali nazionali in modo che pareggino a stento il bilancio e lasciando poi emergere gli utili così occultati in alcuni Stati – paradisi fiscali, presenti anche nell’Unione europea – dove l’imposta sui redditi da capitale è praticamente assente. Gli esempi concreti non mancano e spesso arrivano agli onori della cronaca.
Come ridurre l’elusione fiscale e recuperare gettito per le casse dello Stato?
Una riforma fiscale organica non può girare intorno al problema dell’elusione fiscale. Non può non porsi l’obbiettivo di riaffermare e far valere il principio che le imposte si pagano là dove il reddito si produce. Ovviamente l’attrazione dei paradisi fiscali non riguarda solo i gruppi transnazionali, ma anche alcuni grandi gruppi nazionali che spostano la sede centrale all’estero e riducono le tasse sui profitti. Non bisogna credere e cedere al ricatto della concorrenza al ribasso sull’imposta sui redditi da capitale e sulle plusvalenze finanziarie, perché se non si facesse così gli investimenti esteri sparirebbero dal nostro paese.
Ma sarebbe sufficiente il contrasto all’elusione fiscale?
No, certo. Dal punto di vista dell’etica pubblica sarebbe però l’aspetto prioritario. Un cambio di orientamento. Non ci si può nascondere dietro l’evasione fiscale internazionale delle transazioni finanziarie non tracciabili, favorite da un diffuso regime elusivo anche nazionale e fare poi affidamento su condoni, scudi fiscali e altre coccole fiscali di tax shelter per il capitale rimpatriato o per facilitare investimenti del capitale speculativo predatorio nel nostro paese.
Cosa va fatto?
Dobbiamo tener presente che capitali generati dal risparmio nazionale e inattivi nei conti correnti bancari ne avremmo a sufficienza tramite fondi ad hoc per orientarli ad investimenti a forte valore aggiunto, assicurando al contempo ai risparmiatori italiani un rischio basso di investimento e interessi sicuramente un po’ più remunerativi di quelli corrisposti attualmente sui depositi bancari. Questa, però, è un’altra storia tutta da scrivere, sebbene connessa al programma di governo, magari da collocare all’interno di una strategia politica economica per la Next Generation Eu. Una riforma organica del fisco, però, andrebbe certamente estesa agli altri prelievi impositivi, dalla contribuzione sociale e previdenziale all’Iva.
L’Iva, in effetti, è un altro punto critico. Perché?
L’Iva sul lavoro autonomo, in particolare, ha assunto la funzione di una forma sostitutiva indiretta, anche qui in modo distorsivo, dell’imposta sui redditi di cui si riscontra una forte evasione, incentivando però a sua volta la fuga nel sommerso. Ci sarebbe dunque spazio per una riflessione sistematica per le partite Iva in merito a una flat tax forfettaria, lasciando in alternativa un’opzione per il riconoscimento di una maggiore deducibilità delle spese per la produzione del reddito che per il lavoro autonomo sono sicuramente maggiori di quelle per il lavoro dipendente. La deducibilità fungerebbe da antidoto all’evasione. Dovendo necessariamente basarsi su una documentazione fiscalmente ineccepibile innescherebbe un circuito virtuoso di emersione del sommerso. Su questa strada qualcosa è stato fatto, ma può essere migliorato nel segno dell’equità e della stabilità, in modo da creare affidabilità fiscale e ridurre la propensione all’evasione.
Una riforma organica del fisco basata su un’etica fiscale comprensibile e condivisibile: questa è un po’ la sua idea?
Sì. Bisogna guardarsi perciò da improvvisazioni e sotterfugi tecnici come quello che bolle in pentola sulla revisione delle rendite catastali.
Che cosa teme?
Quello che viene spacciato per un adeguamento di valori catastali desueti avrebbe come risultato non inatteso, ma certo non proclamato, un incremento del gettito rinveniente dall’imposta sugli immobili. Una scelta tecnica basata su una motivazione di equità fiscale. Certo, forse. Apparentemente. E’ lecito però dubitare che all’Agenzia del territorio qualcuno se ne preoccuperebbe se l’aggiornamento delle rendite catastali non fosse foriero di un incremento del gettito Imu e Tasi e ovviamente non sarebbe tenuto a prendere in considerazione gli eventuali effetti collaterali sul mercato immobiliare. Si tratta a ben vedere di valutazioni politiche.
Quali potrebbero essere allora le ricadute inintenzionali della riforma del catasto nel mercato immobiliare che dovrebbero essere oggetto di una previa riflessione di politica fiscale?
Vediamone alcune possibili. L’Imu non è corrisposta dalle imprese costruttrici che osservano, non senza ragione, che costruiscono per vendere e non per detenere l’immobile in proprietà. Ci sono però molti piccoli proprietari nell’analoga situazione di voler vendere, ma intanto continuano a pagare Imu e Tasi.
Anche loro dovrebbero essere esentati?
Sicuramente sono svantaggiati rispetto alle imprese di costruzione, la pressione fiscale li spinge a vendere. Se però il prelievo fosse esteso anche alle imprese costruttrici, esposte spesso con le banche mutuatarie, la misura finirebbe per provocare una più accentuata caduta dei prezzi sul mercato immobiliare con il rischio di avviare una spirale al ribasso. Che dire degli effetti di un’accentuata perdita di valore degli immobili per un incremento degli estimi sui mutui per famiglie e imprese attualmente in stand still con garanzia pubblica? Cosa succederebbe se il valore di mercato degli immobili dovesse scendere vicino o al di sotto dell’importo del mutuo prudenzialmente tenuto dalle banche intorno al 70% della stima del valore dell’immobile? Che dire, poi, dell’Imu solo sulle seconde case, con l’80% degli italiani proprietari della prima abitazione? Con la soppressione dell’Imu sulle prime case il gettito perso è stato recuperato aumentando le aliquote sulle rimanenti. La revisione degli estimi catastali aumenterebbe ancora la pressione fiscale, anche quella Irpef presuntiva, che dal 2014 si cumula con quella Imu, Tari e Tasi.
Qual è il punto di rottura?
Le seconde case sono spesso concentrate in zone turistiche ovvero nel paese di origine della famiglia, cioè in zone con scarsa intensità di popolazione e con i residenti che ovviamente non pagano l’imposta sull’abitazione principale ma beneficiano delle entrate derivanti dal gettito locale delle imposte patrimoniali pagate dagli altri proprietari che, non essendo residenti, non hanno diritto di voto. Rari sarebbero dunque i contrari se le aliquote subiranno ulteriori ritocchi al rialzo per effetto della revisione catastale. Nelle zone terremotate, tanto per cogliere un dettaglio significativo, l’esenzione Imu per i proprietari di immobili inagibili in scadenza al 2020 non era stata prorogata. Apparentemente per una svista, una dimenticanza. Non sembra però che i sindaci dei Comuni interessati abbiano protestato in massa.
Che fare dunque?
Aspettare che la revisione catastale ad aliquote invariate spinga all’abbandono delle seconde case con intestazioni fittizie a nullatenenti oppure rinunciando alla proprietà ex articolo 827 del Codice civile che stabilisce che “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”, di modo che, una volta espressa la rinunzia con atto notarile, l’immobile diviene di proprietà statale, come in alcune zone montane già sta avvenendo. L’Agenzia del demanio peraltro non sembra gradire il dono e si oppone all’acquisizione.
E’ possibile o auspicabile, in alternativa, reintrodurre l’Imu sulla prima casa per ripartire meglio l’onere fiscale patrimoniale? Sarebbe una misura di equità?
Verrebbe sicuramente colpito l’incentivo alla compravendita delle prime case, attualmente il fulcro del mercato immobiliare. Ne risentirebbero tutte le attività che vi ruotano intorno, dall’intermediazione alle ristrutturazioni edilizie.
E allora?
Il bandolo della matassa è all’origine. Se l’imposta si pagasse sul reddito, solo i proprietari che in effetti percepiscono un affitto dovrebbero corrisponderla.
Ma l’evasione come si ferma?
Non certo con la cedolare secca del 20%, introdotta per far emergere il nero, e che tuttavia, una volta in vigore, è difficile da rimuovere, facendo venir meno la già scarsa credibilità del nostro fisco. L’evasione si combatte non allettando l’evasione, ma contrastandola all’origine con l’accertamento.
Mi sembra che torni sempre sul punto centrale del suo discorso sull’onnicomprensività dell’imposta sul reddito. Dal contrasto all’elusione siamo passati al contrasto dall’evasione e all’accertamento del reddito. E’ una strada lastricata da tentativi andati a vuoto. Come perseguirla in concreto?
Il problema sotteso è l’accertamento della base imponibile del reddito, non solo ovviamente per gli immobili. Non l’accertamento ex post dell’evasione, ma l’accertamento ex ante, fisiologico verrebbe da dire, dell’imponibile. Bisognerebbe, in realtà, tornare alla riforma Vanoni del 1953, prima della riforma Visentini del 1972, che ha introdotto l’autodichiarazione dei redditi, smantellando il sistema previgente basato sull’accertamento ex ante del reddito imponibile ad opera degli uffici tributari. Con gli strumenti e i dati oggi a disposizione del fisco, sarebbe abbastanza semplice ripristinarlo in modo più corretto. Penso agli studi di settore e in particolare all’Anagrafe fiscale. Ovviamente per le dichiarazioni dei redditi da lavoro dipendente con trattenuta alla fonte non cambierebbe nulla. Ma il controllo da remoto sui dati non è sufficiente per prevenire l’evasione totale che non lascia tracce.
Un accertamento ex ante, dunque?
Direi, in sintesi, un accertamento di prossimità.
Come metterlo a regime?
Va reintrodotta una vigilanza fiscale ex ante e un riscontro sul territorio, sia decentrando meglio gli uffici esistenti, sia responsabilizzando le autonomie locali che ricevono il gettito dei tributi pro quota, insistono per un incremento delle loro aliquote Irpef o altro, ma si disinteressano in genere del reperimento delle risorse fiscali a loro trasferite. In realtà. nel 1968, quando furono istituite le Regioni, era stato previsto che dovessero avere tributi propri come all’epoca anche i Comuni avevano. Il disegno di legge per l’autonomia impositiva, presentato ritualmente a ogni inizio di legislatura fino agli anni 80, non è mai stato trasformato in legge. Una situazione di stallo che perdura nella sostanza fino ad oggi.
Sta dicendo che ci si è adagiati nell’accentramento del sistema fiscale e della finanza statale trasferita?
E’ così. Trasferimenti spesso finanziati con il ricorso al debito pubblico. Si è pensato di porvi riparo con il vincolo della spesa storica che finiva per innescare quella che – mi è venuta di chiamare – la competizione dissipativa sulle risorse pubbliche. Chi più spendeva, più riceveva a ripiano di bilancio, a prescindere dalla qualità della spesa. Nessun politico – è comprensibile – ama tassare i propri elettori, magari dovendo rendere poi conto di come sono spese le entrate fiscali riscosse in loco. Così, nella battaglia per una maggiore autonomia finanziaria locale e regionale lo stendardo dell’autonomia tributaria non è stato mai ostentato. Ovvie le conseguenze negative sull’accertamento dell’imposta sui redditi nei territori di competenza. La scomparsa dell’Ilor ne è testimonianza.
Poi cosa è successo?
Si è passati con la riforma del Titolo V alla crescente compartecipazione al gettito delle imposte statali riscosse nella regione o nel comune di riferimento. Una misura più equilibrata che però non va nel senso dell’autonomia impositiva con tributi propri.
E la Guardia di finanza?
Anche la Guardia di finanza potrebbe essere riorientata meglio nella direzione dell’accertamento preventivo, invece di essere impiegata in misure puntuali repressive di violazioni formali di legge, come la spedizione per scovare i trasgressori dell’obbligo di emettere gli scontrini dai registratori di cassa di qualche estate fa nel bellunese. Le multe esasperano i malcapitati, ma non riducono la propensione all’evasione se non sono finalizzate direttamente all’accertamento dei redditi non dichiarati. Anche le indagini – operazioni ex post – sempre ben condotte dalla Guardia di finanza sull’evasione fiscale totale producono spesso scarsi risultati pratici.
Per quale motivo?
Non è facile recuperare il gettito sottratto per evaporazione, nel frattempo, degli asset su cui rivalersi e/o per la scomparsa del soggetto passivo d’imposta, come nel caso, recentemente venuto all’attenzione della cronaca, della girandola delle Srl di imprenditori extracomunitari nel Nord del paese. Costituite, svuotate e liquidate in men che non si dica senza lasciare traccia.
Serve forse un approccio più neutrale? E’ il caso di lasciare tutto in mano ai tecnici, visto che la politica sembra troppo condizionata dall’ascolto degli interessi in gioco?
Prendiamo, ad esempio, la recente “testimonianza” del responsabile del settore tributario della Banca d’Italia davanti alla Commissione parlamentare di indagine “sulla Riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario”. Come si vede dall’oggetto dell’indagine della Commissione, la testimonianza era circoscritta alle “persone fisiche”. Il risultato, più ombre che luci, va nella direzione di un ulteriore sovraccarico dell’imposta immobiliare. Con qualche spunto per la riduzione degli scaglioni sull’imposta sui redditi. Solo qualche cenno all’elusione fiscale. E in effetti, cambiare la legislazione elusiva è una scelta politica. Se la Commissione parlamentare chiede lumi sul reddito delle persone fisiche, e solo di quelle, l’elusione fiscale delle persone giuridiche, società e gruppi finanziari resta fuori quadro.
Quindi la riforma organica del fisco promessa da Draghi non è risolvibile lasciando la soluzione in mano ai tecnici?
Non si può oggi scaricare tutto sulle spalle di Draghi con un eccesso di aspettative salvifiche da parte della politica, pronta semmai a chiamarsi fuori in caso di insuccesso. La riforma non è in sé un problema tecnico, anche se la soluzione politica adottata dovrà essere tradotta in coerenti chiavi tecniche applicative. Riconfigurare il sistema tributario sulla base della capacità contributiva, in base all’articolo 53 della Costituzione, secondo criteri di equità e di etica pubblica nel rispetto del principio della sostanza economica, includendo cioè nella base imponibile nazionale i redditi da capitale e le plusvalenze finanziarie realizzate in Italia, rivedendo le norme elusive e introducendo meccanismi virtuosi di contrasto all’evasione fiscale, è piuttosto il compito di una politica sana.
Come si potrebbe procedere concretamente? Con quali strumenti in chiave operativa?
Non è fuor di luogo ricordare come all’epoca della riforma del 1972, Visentini fosse il ministro delle Finanze al vertice di un ministero del cui operato rispondeva davanti alle Camere e all’opinione pubblica. Ministero sempre meno interessante da un punto di vista del consenso politico man mano che cresceva la pressione fiscale. Soppresso il ministero negli anni Novanta, ha preso piede una concezione del fisco come problema tecnico, demandato a varie Agenzie. Nel 1972 Visentini, che era esperto della materia, ma anche un eminente politico, come ministro delle Finanze e con la collaborazione ovviamente di tecnici competenti portò a termine la riforma organica del sistema fiscale in un arco temporale di tre anni, rispettando la sostanza del dettato costituzionale dell’onnicomprensività e progressività della capacità contributiva come quando si oppose – purtroppo inutilmente come ricorda Cavazzuti – all’introduzione della cedolare secca sui redditi da capitale nel 1974.
Pensa a un ministro delle Finanze e a una riedizione di quel ministero?
Sarebbe oggi un’inutile perdita di tempo. Tutti i sommovimenti nell’organizzazione ministeriale prendono tempo e sono quasi sempre un gioco a somma zero.
Quindi?
Penserei ad un ministro senza portafoglio con il compito di coordinamento che risponde direttamente al presidente del Consiglio, oppure più semplicemente di un viceministro preposto alla riforma organica del fisco, che dovrebbe avere la necessaria competenza tecnica. Il nome probabilmente potrebbe trovarsi nell’ambito delle new entry dei consiglieri di Draghi. Un viceministro preposto al dipartimento delle Finanze e agli uffici collegati (Agenzie varie e Anagrafe tributaria) potrebbe essere una soluzione rapida. E’ necessaria, però, una legge delega del Parlamento, come fu per la riforma Visentini, per rivedere in modo coerente l’intera matassa fiscale aggiornata con nuove chiare misure di contrasto all’elusione e all’evasione fiscale.
Una legge delega del Parlamento non farebbe però perdere tempo prezioso?
Si può riprendere quel testo legislativo del 1972. Imposte dirette ed indirette, attuazione entro un termine stabilito con principi chiari costituzionalmente fondati e nel rispetto del quadro comunitario sulle imposte indirette. Bisogna evitare la tentazione di colpi di mano tributari last minute. La riforma costituzionale dell’articolo 81 del 2012 ha aperto la strada a una modifica della legislazione fiscale inserita nelle pieghe della Legge di bilancio, essendo stato abrogato il divieto di introdurre norme fiscali nella legge di approvazione del bilancio dello Stato in vigore in precedenza. Scomparsa così anche la Legge finanziaria, la tentazione di norme ad hoc, magari camuffate con la tecnica della novellazione e con lo strumento dei maxi-emendamenti governativi è in agguato. Sarebbe esattamente l’opposto di una riforma organica del sistema tributario.
(Marco Tedesco)
(2-fine)