Draghi è uomo di fatti più che di parole. Ma nel suo intervento programmatico davanti al Senato il presidente del Consiglio ha accennato esplicitamente alla riforma fiscale, spiegando, da un lato, che non si discosterà dal principio costituzionale della progressività e, dall’altro, che intende porre mano a “un intervento complessivo”, rendendo così “più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”. E non ha nascosto di guardare al modello danese e alla riforma Visentini del 1972. Su quali basi poggerà questa riforma fiscale? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Di Gaspare, ordinario di Diritto dell’economia all’Università Luiss di Roma.
Il nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha fatto cenno nella sua relazione programmatica alla necessità di una riforma fiscale complessiva e ha citato il modello danese. Draghi ha fatto riferimento anche alla riforma Visentini del 1972. Non è forse un termine di paragone troppo risalente all’indietro?
No. In effetti oltre che fare comparazioni con altri modelli che a volte possono essere di difficile innesto è necessario essere consapevoli della nostra dipendenza di percorso – path dependant – per capire come siamo arrivati alla situazione attuale e quindi cosa fare in modo contestualizzato per porvi rimedio. Quella di Visentini è stata in effetti l’ultima riforma organica del fisco, la cui intelaiatura ancora oggi sopravvive, seppure a brandelli.
In che senso a brandelli?
Nel senso che è stata progressivamente smontata nella sua organicità, ma non perseguendo un disegno alternativo, semplicemente rispondendo a richieste di esenzione o detrazioni di quella o quell’altra categoria o gruppo d’interesse che si riteneva rispondente all’una o all’altra parte politica. Un crescendo di interventi puntuali, ondeggianti tra esoneri del carico fiscale per alcuni gruppi e la necessità, al contempo, di mantenere costante il gettito con misure che spalmavano la sua riduzione su più ampie categorie di contribuenti oppure sull’aumento del debito pubblico. L’ultimo rapporto significativo sull’entità del fenomeno dei contributi alle imprese risale al 2012 ad opera dell’appena nominato consigliere economico del presidente del Consiglio, Francesco Giavazzi.
Un’altalena costante?
Si può rispondere in modo affermativo, con un punto di svolta verso l’aumento della pressione fiscale alla fine degli anni Ottanta. In quegli anni, la necessità di porre un freno all’incremento del debito pubblico al fine di rispettare i parametri di Maastricht per l’ingresso nell’euro, sotto il cui ombrello monetario troviamo oggi riparo nell’attuale crisi pandemica, ha determinato un aumento della pressione fiscale, si è scaricato sul famoso prelievo a sorpresa nei conti correnti del 1992 e soprattutto con l’introduzione di imposte patrimoniali sulla proprietà immobiliare – come l’Ici -o sulle imprese produttive “territoriali” con un’imposta di natura mista, patrimoniale/reddituale, come l’Irap, con vari effetti distorsivi sull’economia del paese.
Quali, per esempio?
L’Irap è stata concepita come una sorta di espediente per rientrare dalla perdita di gettito causata dall’evasione fiscale sul reddito di impresa. La reazione all’Irap da parte delle imprese ha generato, forse solo accentuato, una tendenza difensiva/adattiva al ridimensionamento della fabbrica o degli impianti.
Come si è manifestata questa tendenza?
In diversi modi: un ostacolo alla crescita dimensionale a favore del mantenimento di una configurazione economica, giuridica, patrimoniale e contabile da piccola e media impresa; effetti distorsivi nel tessuto imprenditoriale; esternalizzazioni di fasi della produzione; economia sommersa; esterovestizioni; delocalizzazione degli impianti all’estero; riduzione degli investimenti anche in beni strumentali, per quanto mitigati da agevolazioni fiscali ad hoc sui macchinari; riduzione soprattutto dei dipendenti regolarmente assunti, il cui computo concorre a definire il calcolo presuntivo dell’Irap.
Con quali conseguenze?
Più partite Iva e/o più nero, anche per non superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti che apriva l’ingresso in fabbrica ai sindacati. I nostri virtuosi distretti industriali sono anch’essi figli in buona parte di questa reazione adattiva di fuga, per la verità non solo dal fisco, ma anche dai sindacati e dalla burocrazia.
In che senso anche i distretti industriali?
La piccola dimensione aiuta a nascondersi e molte imprese, seguendo le opportunità di business, piuttosto che crescere verticalmente nel modello del gruppo societario, si sono estese orizzontalmente tramite la cooperazione imprenditoriale di vicinanza, al fine di avere anche una capacità di negoziazione politica quanto meno locale e mitigare le esternalità negative di contesto. Una peculiarità tutta italiana di come di necessità si faccia virtù.
E gli effetti negativi dell’esperienza dei distretti quali sarebbero?
Difficile uscire dallo schema di gioco dell’impresa familiare. Scarsa propensione all’apertura agli investimenti di capitali da terzi, una ridotta inclinazione alla gestione manageriale e alla ricerca non supportata dalla ridotta articolazione societaria e della scarsa capitalizzazione. Quasi nulla propensione alla quotazione, alla quale non sarà semplice porre riparo anche con la schiera di consulenti finanziari che il nuovo governo si appresta a mettere a disposizione per incentivare le Pmi.
Ma il modello di resilienza e adattabilità del distretto industriale, esposto alla competizione internazionale e aperto all’innovazione di prodotti e di processi, è facilmente replicabile in tutto il tessuto produttivo del paese?
No. Le piccole e medie imprese isolate, orientate essenzialmente nel mercato nazionale e più soggette alle dinamiche della domanda, hanno pagato uno scotto maggiore per la ridotta resilienza strutturale e finanziaria. Perdita di posti lavoro, nonché di ulteriore gettito derivante dall’imposta sul reddito delle imprese.
Tornando alla riforma fiscale, come si può sopperire alla perdita del gettito fiscale derivante dal rapido e improvviso depauperamento del settore dei servizi alla persona, del turismo, della ristorazione e delle microimprese commerciali e artigianali?
In primo luogo, evitando la coazione a ripetere che spinge il fisco a prendere di mira i beni immobili non facilmente occultabili con un ulteriore aggravamento dell’imposta patrimoniale. Se cerchiamo di capire cosa sia andato storto non è difficile convenire sul fatto che lo spostamento del carico fiscale sugli immobili sia dipeso principalmente dall’evasione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche, fatta eccezione per quelle categorie di lavoratori che subivano la ritenuta alla fonte. Nell’ultimo quarantennio, dopo un susseguirsi di sempre più esangui condoni che hanno generato di riflesso una crescente propensione all’evasione, si è pensato bene di ricorrere a misure suppletive/integrative del gettito, prendendo di mira il patrimonio immobiliare. Del resto, è a portata di mano, ovviamente se accatastato.
D’accordo, lo spostamento del focus fiscale sul patrimonio immobiliare è dipeso dal calo del gettito sulle imposte reddituali. Ma quale sarebbe la ragione per non ricorrervi? Anche molti altri paesi hanno introdotto imposte sul patrimonio immobiliare…
E’ il caso di riprendere il discorso sulla dipendenza di percorso nell’evoluzione/involuzione del nostro sistema fiscale partendo dalla Costituzione e dall’articolo 53, che stabilisce che le imposte devono essere commisurate alla “capacità contributiva”, cioè al reddito.
Che cosa significa?
Si paga in ragione di quello che si guadagna o si introita come reddito complessivo nell’anno e l’imposta aumenta, sempre secondo l’articolo 53, progressivamente, in ragione dell’incremento del reddito. Nel conteggio dell’imponibile per la capacità contributiva si deve computare ogni reddito, a prescindere dal cespite di provenienza, sia esso da lavoro – in qualsiasi forma, dipendente, autonomo o d’impresa – o da redditi derivanti da immobili, da capitale, da eventuali plusvalenze. La capacità contributiva è onnicomprensiva. Tutti i cespiti produttivi di reddito a vario titolo concorrono a formarla e, a parità di reddito, tutti devono pagare la stessa imposta.
Sul criterio di progressività sono in genere tutti d’accordo, salvo poi dividersi sulle aliquote e gli scaglioni di reddito, ma il principio che tutti siano tenuti a pagare l’imposta in base alla loro “capacità contributiva” e che la capacità contributiva escluda l’imposta patrimoniale non sembra affatto consolidato. Da cosa lo ricava?
E’ vero. La Corte costituzionale, benché negli anni Novanta, vi si siano succeduti eminenti tributaristi, non ha mai stabilito cosa si debba intendere, in positivo, per capacità contributiva ex articolo 53.
Perché?
Nelle sue pronunce si è sempre limitata ad affermare in negativo che quella o quell’altra norma fiscale sottoposta al suo giudizio non fosse in contrasto con la capacità contributiva. Così che la capacità contributiva è divenuta una formula bonne à tout faire, svuotata di senso.
Che cosa glielo fa pensare?
La conferma che la capacità contributiva riguardi solo i redditi e non il patrimonio la si ricava dalla stessa Costituzione. L’ articolo 42, quarto comma, prevede infatti l’imposta di successione, che è appunto un’imposta patrimoniale, che si calcola sul valore dell’asse ereditario.
L’imposta di successione è dunque l’unica imposta patrimoniale costituzionalmente legittima?
Esatto, proprio perché, essendo prevista in Costituzione, non è soggetta al limite della capacità contributiva. Se l’imposta di successione fosse stata introdotta con legge ordinaria – deve aver pensato il costituente – sarebbe invece stata costituzionalmente illegittima, in contrasto con il limite della “capacità contributiva”.
Quindi l’imposta patrimoniale sugli immobili nel nostro sistema fiscale risalirebbe all’Ici, l’Imposta comunale sugli immobili?
Sì, al 1989.
Perché con tanto ritardo? Per quale motivo la riforma organica del 1972 non l’aveva prevista?
Il ritardo è apparente e la ragione risiede nel fatto che fino all’introduzione dell’Ici nessuno dubitava di questo assioma. Per il finanziamento degli enti locali, la riforma Visentini del 1972 aveva previsto non un’imposta patrimoniale, ma un’imposta locale sui redditi, l’Ilor, alla cui carenza di gettito si è sopperito con l’introduzione dell’Ici. Successivamente, nel 1992 si è aggiunta un’imposta sul patrimonio netto dell’impresa, definita “straordinaria” perché palesemente in contrasto con l’articolo 53, e rinnovata di anno in anno fino al 1995. Abrogata insieme all’Ilor ed entrambe sostituite nel 1997 dall’Irap. un’imposta mista patrimoniale/reddituale.
E l’imposta di successione?
E’ paradossale che l’unica imposta patrimoniale prevista in Costituzione sia stata invece negli anni Novanta a lungo sospesa e poi reintrodotta, ora con un’elevata franchigia. Non è un’imposta simpatica – diciamolo pure – e istintivamente non si piange sulla sua caducazione e sospensione. Né sarebbe agevole riattivarla, dopo che, a causa della sua prolungata disattivazione, ingenti fortune hanno fatto intonse il salto generazionale, soprattutto nell’ultimo decennio del secolo scorso.
Quale sarebbe la ragione della sua sospensione? Non sembra che goda di migliore sorte in altri sistemi fiscali…
In effetti, l’imposta sull’eredità non è una scoperta del nostro costituente. Essa risponde all’etica pubblica tipica delle liberaldemocrazie. La sua abrogazione è stata contrastata anche negli Stati Uniti dalla componente liberal, addirittura da esponenti della plutocrazia, tra cui Bill Gates e Warren Buffett, con affermazioni incentrate sul criterio meritocratico. Del resto, anche da noi un liberale costituente come Einaudi era a favore.
Dove sta la ragione meritocratica?
La ragione meritocratica sta nel fatto che il beneficiario dell’eredità diviene proprietario di un compendio di beni e di asset che non sono stati il frutto del suo lavoro. Per l’etica liberaldemocratica, e in Italia in una Repubblica “fondata sul lavoro”, è sembrato giusto che sull’eredità ricevuta senza sforzo o merito personale la collettività possa esigere un’imposta che colpisca non solo il reddito prodotto da quegli asset, ma lo stesso patrimonio ereditato. Una volta esatta l’imposta sull’eredità, l’erede dovrà pagare, al pari di tutti gli altri contribuenti, solo l’imposta sul reddito.
Come si spiega allora la sospensione dell’imposta di successione, in concomitanza con l’introduzione di altre imposte di natura patrimoniale che dovrebbero essere invece considerate illegittime costituzionalmente?
E’ il caso di soffermarsi sul punto, per segnalare il paradosso della disapplicazione dell’unica imposta patrimoniale prevista in Costituzione, a fronte del coevo proliferare di imposte patrimoniali stabilite a vario titolo dal legislatore. La soluzione dell’enigma sta probabilmente nel fatto che, mentre Imu, Tasi e Irap sono imposte immobiliari, la successione è omnicomprensiva. Colpisce tutti i beni che confluiscono nell’eredità, compreso il capitale finanziario e il patrimonio intangibile. Con la disattivazione dell’imposta di successione il capitale finanziario è stato esentato da ogni tipo di imposta patrimoniale, mentre gli immobili esentati dalla successione una tantum sono stati permanentemente assoggettati a imposizione patrimoniale. Questa attenzione al capitalismo finanziario spiega, poi, il perché l’abrogazione dell’imposta di successione si sia verificata in epoca di globalizzazione finanziaria generalizzata.
Che ne pensa, allora, della proposta di una sua più consistente reintroduzione, avanzata da Pd e M5s, con un abbattimento della franchigia a 150mila euro?
Mi sembra un po’ come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti, prendendo di mira, considerata la modesta franchigia riconosciuta, essenzialmente il ceto medio, di cui si colpirebbero i risparmi, comunque tracciabili dal fisco, a differenza di quelli di provenienza illecita, invece scudati.
Un ceto, tra l’altro, già tartassato dalle altre tasse patrimoniali – Imu, Tasi e Irap – che non sembra si vogliano abolire, anzi.
Devo dire che al fondo non convince l’ottica redistributiva e la logica pauperistica di redistribuire il reddito prelevandolo agli uni e attribuendolo ad altri sotto forma di reddito di cittadinanza, i cui percettori ne avrebbero titolo in quanto inattivi, o tenuti tali, oppure incentivati a chiederlo per avere una patente di indigenza a copertura di altri affari.
In effetti colpisce il fatto di mafiosi così patentati come cittadini indigenti…
Senza dubbio. Ciò non fa venire meno, però, la necessità di essere solidali con politiche del lavoro attive e al contempo di sostegno al reddito per quei cittadini che non trovano specifiche protezioni nei sindacati e nelle associazioni professionali come le donne, i precari, i giovani in cerca di prima occupazione, i portatori di handicap.
(Marco Tedesco)
(1-continua)