Offre spunti di riflessione la dichiarazione del Presidente di Confindustria Bonomi che nel chiedersi perché passare alla tassazione diretta mensile solo per 5 milioni di autonomi rilanciava proponendo di fare lo stesso per tutti lavoratori dipendenti, sollevando le imprese dall’onere di svolgere la funzione di sostituti d’imposta.



L’abolizione del meccanismo del sostituto di imposta non è un argomento nuovo. Negli anni ’90 è stato un cavallo di battaglia dei radicali che volevano raggiungere la parificazione fiscale fra lavoratori autonomi e dipendenti attraverso l’abolizione delle ritenute alla fonte sui redditi. Il fondamento della proposta è noto: i lavoratori dipendenti sono “onesti” dal momento che lo Stato preleva le imposte prima che essi ricevano lo stipendio, mentre i lavoratori autonomi hanno la possibilità di “occultare” i propri redditi. La proposta dei radicali è stata oggetto di richiesta di referendum bocciata dalla Consulta per violazione dell’articolo 75 c. 2 della Costituzione in quanto riferita a leggi tributarie.



Come ogni argomento ci sono i favorevoli e i contrari.

Chi è contrario alla proposta sostiene che i dipendenti non possono evadere non a causa delle ritenute alla fonte, ma perché, anche senza ritenute, hanno un reddito noto e ogni tentativo di evasione sarebbe velleitario. Sostiene anche di non comprendere le intenzioni di chi vuole dare al lavoratore dipendente lo stipendio lordo. Così facendo sembrerebbe si voglia dire: adesso fai quello che vuoi, paga le tasse se ti va o evadi come “fanno” gli autonomi concludendo come non sia un obiettivo condivisibile rendere possibile l’evasione fiscale. I contrari riconoscono, comunque, come sia una comodità ed eviti molte seccature il fatto che le ritenute siano operate dai datori di lavoro che devono assolvere all’onere del pagamento. Non riconoscono però che questi adempimenti e/o seccature sono a carico delle imprese. Lo stesso dicasi per le dichiarazioni pre-compilate tanto sbandierate senza che venga dato il giusto peso al ruolo e ai costi che le imprese e i professionisti sostengono perché ciò sia possibile.



Gli argomenti di chi è a favore della proposta sono due: la parificazione di trattamento fra autonomi e dipendenti e la trasparenza fiscale. A voler sintetizzare, si può dire che con le ritenute alla fonte non si ha la giusta percezione di quanto sia il carico fiscale ed eliminandole il dipendente avrebbe un’immediata percezione di quanto sia il suo salario lordo e quale il netto. Con l’abolizione, quindi, verrebbe meno la differenza di interessi fra le diverse categorie di contribuenti e i gestori della spesa pubblica sarebbero chiamati a dover giustificare ogni uscita con miglioramenti dell’efficienza e della produttività.

Con ogni probabilità la dichiarazione di Bonomi è una provocazione più che una proposta. Stimola riflessioni. Sottolinea, infatti, come la pandemia abbia fatto emergere le differenze tra le diverse categorie reddituali e come alcune godano di diritti acquisiti ai quali va dato il giusto valore. Altrettanto conferma come sia giunto il momento di affrontare l’incertezza che accompagna il lavoro dipendente privato, la vita dei lavoratori autonomi e i rischi che corrono quanti sono impiegati nella sicurezza e nella cura della persona.

Partendo da queste premesse la riforma fiscale dovrà essere incentrata su provvedimenti che portino all’equità e non l’uguaglianza, per cui la proposta Bonomi va confrontata con la riflessione del Direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini sul modo di versare le imposte. È evidente che il problema non si risolve solo operando un restyling del modo in cui verranno versate le imposte spiegando che così si potrà evitare lo stress annuale a cui sono sottoposti i lavoratori autonomi. Il sistema non ne uscirà migliore.

I provvedimenti introdotti e quelli che si vorrebbe introdurre, infatti, colpiscono, solo una parte dei contribuenti, quella di fatto già “fedele” al fisco. Oggi la liquidazione delle imposte passa per la compilazione di modelli dichiarativi non semplici per nessuna categoria. Introdurne altri non è una soluzione.L’esperienza acquisita consiglia di percorrere una strada diversa che valorizzi l’esperienza fatta, ad esempio, nel settore delle ristrutturazioni edilizie operando, attraverso intermediari finanziari, piccole ritenute in acconto.

Il sistema fiscale italiano poggia sul principio della progressività, ma è mitigato da più di qualche “sprazzo” di tassa piatta. È, dunque, un sistema lontano dall’essere concretamente equo. Di fronte alla lettura delle prime bozze della nuova Legge di bilancio, ci sembra utile avviare una riflessione. La riforma fiscale non deve essere frettolosa e limitata alla sola Irpef. Il principio base che deve guidarla è il tema dell’equità che passa per il riconoscimento della profonda diversità con cui ogni singola categoria di lavoratore può affrontare la crisi nei prossimi anni. In Italia esistono di fatto quattro grandi categorie di contribuenti: i lavoratori dipendenti (tra cui bisogna distinguere i dipendenti pubblici da quelli privati), i lavoratori autonomi e le imprese.

I lavoratori del settore autonomo, dipendenti e/o imprenditori vivono un momento di crisi così profondo di cui riusciamo a percepire solo ora la gravità. Queste categorie soffrono sia in termini di incertezza che in termini economici. Le Pmi hanno un ruolo chiave nella crescita economica del Paese. A queste categorie va dato un segnale forte di attenzione “riconoscendo” loro, attraverso la leva fiscale, i rischi e le incertezze legate al loro status.