“Ci troviamo di fronte a un intervento complesso che investe molti aspetti dell’ordinamento giudiziario”. Marcello De Chiara, giudice per le indagini preliminari nel Tribunale di Napoli, già presidente della sezione Anm distrettuale, parte da qui per commentare le proposte di riforma avanzate dal governo, che in fatto di progressione della carriera dei magistrati vanno giustamente nella direzione di dare maggior peso al merito, anche se non mancano le perplessità. E sulle modifiche della legge elettorale dei componenti togati del Csm, De Chiara valuta “positivamente che il legislatore non abbia accolto la proposta di introdurre il sorteggio come meccanismo per designare i candidati alle elezioni per il rinnovo del Csm”. E sottolinea: “Esprimo un giudizio positivo sulla scelta di sostituire il collegio unico nazionale con una pluralità di collegi di ridotte dimensioni, essendo ciò una condizione necessaria per consentire ai magistrati di esprimere un voto consapevole”.



Come giudica le proposte del governo sulle modifiche della progressione in carriera dei magistrati?

Ci troviamo di fronte a un intervento complesso che investe molti aspetti dell’ordinamento giudiziario. Sul piano delle finalità ispiratrici mi sembra che vi sia stata la scelta di attribuire un maggiore peso al parametro del merito, che personalmente reputo positiva. In materia di incarichi direttivi, ad esempio, per la prima volta, il Governo tenta di affrontare il vero nodo della problematica, che è quello dei criteri per individuare il candidato più idoneo.



In che modo?

Oggi, è, ormai, assodato che di fronte alle sfide della modernità, la magistratura ha bisogno di dirigenti, oltre che giuridicamente preparati, anche in possesso di più specifici saperi, ad esempio in campo informatico, ma non solo. L’epoca in cui il presidente del tribunale era un titolo principalmente onorifico, che veniva assegnato in base all’ordine di collocamento nel ruolo di servizio, è definitivamente tramontata e invocare il ripristino del criterio dell’anzianità significherebbe rinunciare all’obiettivo di una magistratura realmente al passo con i tempi; a pagare i costi di una tale resa sarebbero in primo luogo i cittadini. Sono convinto che il passaggio ad una concezione avanzata di organizzazione giudiziaria non è stato, però, fino ad ora accompagnato da un adeguato approfondimento anche sul piano intellettuale dei parametri del “merito” e delle “attitudini”.



Perché?

Misurare il merito dei magistrati è infatti un’operazione in sé estremamente complessa, compararlo lo è ancora di più, dal momento che nel caso dei magistrati tali giudizi non possono agganciarsi ai risultati conseguiti o ad altre entità suscettibili di univoca valutazione come accadrebbe per l’amministratore di una società. È inutile dire che proprio la tendenziale indeterminatezza di tali concetti è stata uno dei fattori propizianti le recenti degenerazioni che hanno scosso l’istituzione consiliare, in quanto tra le pieghe di parametri indefiniti si insinuano più facilmente deprecabili logiche come quella di favorire il candidato in ragione della sua appartenenza correntizia.

Nelle proposte del governo c’è qualche aspetto che non la convince?

Sì. Desta, infatti, perplessità la soluzione adottata per coinvolgere i componenti laici dei consigli giudiziari nelle valutazioni di professionalità. In linea di principio, l’idea di allargare la base del giudizio attraverso il contributo qualificato di avvocati sarebbe condivisibile e potrebbe essere un efficace antidoto al germe dell’autoreferenzialità, che rischia di trasformare l’avanzamento in carriera dei magistrati in una sterile finzione. Gli avvocati possono, infatti, veicolare dati di esperienza acquisiti sul campo, che difficilmente si ritrovano nei rapporti informativi dei dirigenti e che dovrebbero avere un adeguato spazio nel giudizio sulla professionalità.

Dove sta allora il punto critico?

Il punto è che tale qualificato contributo può essere acquisito attraverso forme diverse di partecipazione. La soluzione adottata nel testo licenziato è stata quella di riconoscere agli avvocati un vero e proprio diritto di voto, sia pure con la duplice cautela di prevedere un voto unico per l’intera componente forense e di limitare tale facoltà ai soli casi in cui vi sia stata una previa segnalazione ad opera del competente Consiglio dell’Ordine. La precedente soluzione che prevedeva il solo diritto di partecipazione alle discussioni, poi ulteriormente rafforzato mediante l’espressa attribuzione del diritto di intervento, aveva l’indiscutibile pregio di realizzare un migliore contemperamento tra l’esigenza istruttoria e l’ineludibile necessità di salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, tenuto conto che i membri avvocati continuano ad esercitare la professione nel medesimo distretto al quale appartengono i magistrati in valutazione.

Quelle sulla limitazione del cambio funzioni? 

Premetto di essere contrario alla separazione delle carriere, non solo perché il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa può essere fonte di arricchimento culturale per il magistrato. Piuttosto mi pare che non si sia ancora data un’esaustiva soluzione al problema di quale sarebbe l’ordinamento del pubblico ministero in uno scenario a carriere separate ed è quindi realistico prevedere che lo “scorporo” dei Pubblici ministeri avrebbe come inevitabile conseguenza il loro inquadramento nel potere esecutivo, in linea del resto con il dato ricavabile dall’esperienza degli altri paesi occidentali. Ove si consideri l’insofferenza che il potere esecutivo ha storicamente mostrato verso le prerogative di autonomia e indipendenza del Csm, sembra piuttosto inverosimile che la politica possa accettare l’idea di crearne un secondo con equivalenti prerogative.

Basta quindi quanto già previsto dalla normativa vigente?

La vigente normativa già subordina il passaggio di funzioni a rigide condizioni, di ordine sia territoriale, che temporale: il cambio non è infatti consentito nell’ambito della medesima regione e bisogna aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata. Sono limitazioni, a mio parere, più che adeguate a prevenire indebite contiguità, tanto più considerato che le ulteriori limitazioni traggono origine da un assunto del tutto indimostrato, in base al quale i giudici tenderebbero ad appiattirsi sulle tesi del Pubblico ministero in ragione della loro appartenenza alla medesima carriera.

Come giudica le modifiche della legge elettorale dei componenti togati del Csm?

Intanto giudico positivamente che il legislatore non abbia accolto la proposta di introdurre il sorteggio come meccanismo per designare i candidati alle elezioni per il rinnovo del Csm. Al netto delle obiezioni di natura costituzionale, tale svolta avrebbe suggellato l’incapacità della magistratura italiana di trovare al suo interno dei propri degni rappresentanti. Non credo che nel panorama degli ordinamenti contemporanei vi siano significativi esempi di organi di rilevanza costituzionale per i quali la selezione dei componenti sia attuata in tal modo, salvo il caso obiettivamente trascurabile delle Assemblee cittadine nella Columbia Britannica.

Sta dicendo forse che la legge elettorale non doveva essere modificata?

No, ciò non vuol dire che la legge elettorale non doveva essere modificata, anzi un intervento riformatore era improcrastinabile. Ritengo, infatti, che uno dei fattori che hanno propiziato i recenti scandali sia ravvisabile proprio nella vigente legge elettorale, la quale, prevedendo un unico collegio per l’intero territorio nazionale, non consente di esprimere un voto fondato sull’effettiva conoscenza dei candidati. La mancanza di un diretto rapporto con i candidati rafforza infatti il peso delle “correnti”, le quali, colmando il difetto di conoscenza di molti elettori, assumono un ruolo di intermediazione nella scelta dei candidati, con la conseguenza che il consigliere risulta eletto anche grazie al contributo, talvolta decisivo, del gruppo che lo ha sostenuto. Esprimo pertanto un giudizio positivo sulla scelta di sostituire il collegio unico nazionale con una pluralità di collegi di ridotte dimensioni, essendo ciò una condizione necessaria per consentire ai magistrati di esprimere un voto consapevole.

Ritiene che la magistratura stia facendo autocritica rispetto a quanto emerso negli ultimi anni?

Nell’opinione pubblica è forte la tentazione di affibbiare alla crisi della magistratura italiana l’etichetta un po’ compiaciuta di “questione morale”. La questione è certamente morale, ma sullo sfondo c’è molto altro, perché i recenti scandali sono le scorie di un travagliato processo di modernizzazione che ha investito la magistratura con netto ritardo rispetto ad altri ambiti dell’apparato statale.

Detto questo?

E’ innegabile che la magistratura associata abbia intrapreso un percorso di profonda rifondazione. Prova ne è la ferma volontà di perseguire a livello disciplinare tutte le condotte dei propri associati in contrasto con il codice etico. Dire se tali tentativi si siano arrestati al livello di propositi e proclami o riflettano piuttosto una reale presa di coscienza è presto per dirlo, ma le prossime elezioni del Csm saranno un’importante occasione per capirlo.

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