La riforma della giustizia, dopo l’approvazione in Cdm e l’annunciata fiducia che ne accompagnerà la votazione parlamentare, continua a suscitare reazioni contrastanti fra gli addetti ai lavori. Alle posizioni di forte critica espresse da toghe note come Gratteri e De Raho, hanno poi fatto seguito commenti più favorevoli come quelli di Violante e Spataro. Abbiamo chiesto a un giudice di trincea, meno avvezzo alla ribalta, la sua opinione. Mario Morra, apprezzato magistrato napoletano in prestito al Tribunale di Milano, ha in precedenza svolto presso il Tribunale di Napoli sia le funzioni di giudice del dibattimento che di giudice delle indagini preliminari. Si è occupato di centinaia di processi di criminalità organizzata prima di dedicarsi alla criminalità economica. Da sempre è un appassionato di diritto comparativo.
Come mai i magistrati sono in prevalenza contrari alle proposte di riforma del processo penale del Governo?
Vede professore, credo che i magistrati, occupandosi tutti i giorni di processi, a differenza di politici e commentatori, siano in grado di valutarne meglio gli effetti reali, non solo sul proprio lavoro, ma sulla collettività. Una cosa infatti andrebbe chiarita: in relazione agli aspetti più censurabili della riforma, mi riferisco in particolare all’improcedibilità nei giudizi di impugnazione, i magistrati non hanno nessun tipo di privilegio da difendere nell’opporsi a tale riforma, anzi, paradossalmente con l’improcedibilità sarebbero esonerati dal compito di gestire e decidere complessi procedimenti e poi scrivere le relative sentenze.
Allora secondo lei come mai sull’improcedibilità nei giudizi di appello e in Cassazione si sono levate in questi giorni molte voci critiche?
C’è un grosso equivoco su questo punto. Come lei certamente converrà, la riforma proposta, con l’introduzione della cosiddetta improcedibilità, non velocizza i giudizi, si limita semplicemente a ridurre il numero dei processi che potranno concludersi con un accertamento definitivo. Prevedere un termine massimo di durata dei processi, senza intervenire sui motivi che attualmente non consentono di rispettare quel termine, può rispondere solo a due ragioni: voler prevedere un’amnistia mascherata, oppure credere che i ritardi dipendano dal poco lavoro dei magistrati. Se la prima ipotesi è quanto meno poco conveniente per il nostro paese, la seconda sarebbe solo il frutto di una mancata conoscenza di quelli che sono i dati oggettivi sulla produttività dei magistrati in Italia. Esiste un organismo internazionale che raccoglie e valuta i dati relativi all’efficienza dei sistemi giudiziari di tutti i paesi europei (Cepej) da tutti consultabili; in base a questi dati, da almeno un decennio, i magistrati italiani risultano quelli che concludono più procedimenti nel corso di un anno, non solo in primo grado, ma anche in appello e in cassazione. Una produttività maggiore non credo sia sostenibile, se non a discapito della qualità del lavoro e della ponderazione della decisione.
Quanto lei cita è riconosciuto dalla prevalenza degli addetti ai lavori; tuttavia rispetto agli altri paesi europei, i processi in Italia sono quelli più lenti e con la cancellazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado era forte il rischio di produrre processi infiniti; su questo sono sicuro che lei converrà.
Professore, come lei stesso ha scritto in diverse occasioni su queste pagine, il vero nodo è il numero dei processi da gestire. Solo per limitarsi all’ultimo rapporto Cepej, relativo ai dati del 2020, rispetto alla popolazione e al numero dei giudici, in Italia ogni anno vengono proposti il doppio degli appelli presentati in Spagna ed il triplo di quelli proposti in Francia. Significa quindi che per ogni processo d’appello gestito dal collega francese, il giudice italiano ne deve gestire tre, il che imporrebbe ovviamente il triplo del tempo. Con la riforma invece il tempo si riduce e la conseguenza sarà solo che per alcuni processi non sarà possibile accertare la responsabilità.
Il ministro della Giustizia ha comunque precisato che l’improcedibilità non riguarderà i reati più gravi.
L’improcedibilità, nel progetto di riforma, non si applicherà solo ai reati puniti con l’ergastolo. Come lei ben sa, escludendo fattispecie puramente teoriche (come chi porti le armi contro lo Stato italiano o l’attentato al Presidente della Repubblica) è punito con l’ergastolo solo l’omicidio aggravato o altri reati che comunque si incentrano sulla morte di una o più persone. Ma questi, fortunatamente, sono un numero sparuto. Per tutti gli altri reati, sulla scorta del testo attuale, l’improcedibilità sarà una eventualità estremamente concreta, anche per reati estremamente gravi legati alla criminalità organizzata, e la cosa più illogica e che si prescinderà totalmente sia da ciò che è avvenuto in primo grado – una condanna a 30 anni o un’assoluzione saranno sullo stesso piano –, sia dal tempo trascorso dal momento di commissione del reato, che in ipotesi potrebbe essere stato commesso pochissimo tempo prima della sentenza di primo grado.
Quindi secondo lei in che altro modo sarebbe stato possibile contenere i tempi del processo? Perché che questo sia necessario è francamente innegabile.
Credo che un approccio corretto sarebbe stato quello di studiare i sistemi processuali degli altri paesi europei e capire perché altrove ci sono meno processi in appello e in cassazione. Il motivo è semplice, in nessuno Stato europeo possono essere impugnate tutte le sentenze di primo grado e per di più senza alcuna conseguenza pregiudizievole per chi impugna. In Germania, ad esempio, le sentenze emesse da giudici collegiali non sono impugnabili; in Francia, il giudice di appello può modificare la pena in senso peggiorativo per l’imputato, il quale dunque valuterà attentamente se proporre o meno un appello pretestuoso.
La sua proposta?
Personalmente sarei stato favorevole alla non appellabilità delle sentenze di assoluzione (che però sono un numero minimo tra quelle che vengono appellate). Un’altra possibilità, a costo zero e dotata di una sua razionalità, era quella prevista nel progetto di riforma del precedente ministro Bonafede, che prevedeva la possibilità, per i reati meno gravi, che i processi in appello venissero decisi da un solo giudice anziché impegnarne tre sullo stesso affare come accade oggi.
Immagino dottore che lei sia d’accordo con il procuratore Gratteri sul fatto che circa il 50% dei processi sarà dichiarato improcedibile.
Veda, è un dato di fatto che attualmente molte corti di appello non riescono a concludere tutti i processi entro due anni. Io non credo che ciò dipenda dal fatto che i colleghi se la prendano comoda, anche perché già ora i ritardi ingiustificati sono sanzionati disciplinarmente, tema che so esserle particolarmente caro. Per molti processi dunque si arriverà gioco forza all’improcedibilità; questo non danneggerà i magistrati, ma i cittadini. In Italia vengono mediamente commessi 5mila reati al giorno. Salvo alcune figure di reato che forse potrebbero essere depenalizzate, per la stragrande maggioranza dei casi si tratta di reati che ledono interessi meritevoli di protezione. Al di là dei reati di criminalità organizzata, che continuano a costituire un’emergenza per questo paese, pensi ai furti in abitazione, alle rapine, alle migliaia di truffe agli anziani, alle aggressioni, alle bancarotte fraudolente, ai reati legati agli infortuni sul lavoro, ecc., sono tutti reati che ledono una vittima e che, tra l’altro, vengono generalmente commessi in modo seriale. La ragionevole convinzione da parte del reo di non dover subire le conseguenze della propria condotta costituirà un ulteriore incentivo a delinquere. Il prezzo della riforma non sarà pagato dai magistrati, ma dalle vittime dei reati, dai comuni cittadini, alcuni dei quali ingenuamente pensano che l’obiettivo sia quello di limitare lo strapotere dei magistrati, senza però rendersi conto che, almeno le proposte principali, non hanno alcuna attinenza logica con questo scopo.
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