In politica i segnali contano. E quello lanciato da David Sassoli appartiene alla categoria dei segnali forti. Ci sono almeno due elementi salienti nell’intervista domenicale a Repubblica, il superamento del Mes e la cancellazione del debito contratto dagli Stati per far fronte alla pandemia. E che non si tratti di parole al vento lo conferma un’altra intervista che va nella stessa direzione, quella dell’ex premier Enrico Letta sulla Stampa.



Oggettivamente il problema esiste: ci sono 400 miliardi di euro fermi, e nessuno Stato vi ha fatto ricorso. Sembra un’assurdità, nel momento in cui si cercano in ogni dove risorse per far fronte all’emergenza. Sassoli lo dice chiaro: il Mes puzza troppo di 2008 (di Grecia e di troika, quindi), è un meccanismo “politicamente impraticabile. Da qui l’idea di uscire dal meccanismo interstatuale che sta alla base di questo fondo, per portare queste risorse nell’ambito comunitario, in modo da essere utilizzate per irrobustire gli strumenti a disposizione della Commissione.



Ci sono molti livelli di lettura di questa uscita. E quello di dare implicitamente ragione a chi al Mes si è sempre strenuamente opposto, dal Movimento 5 Stelle a Salvini e Meloni, è solamente una di queste. Non può essere solo questo, perché il warning non verrebbe da due dei più prestigiosi esponenti (Sassoli e Letta) di un partito, il Pd, che sino a qualche settimana fa faceva del ricorso al Mes una bandiera. L’ex premier è durissimo: grida vendetta, sostiene, “combattere una guerra tenendo le munizioni in cantina”.

C’è un dubbio da sciogliere: se il presidente dell’Europarlamento parli più da italiano, o da dirigente di una delle massime istituzioni comunitarie. Dalle sue parole traspare una preoccupazione non limitata al nostro paese. La definizione del Mes come “anacronistico” si accompagna, infatti, con altre richieste che segnalano la preoccupazione per una crisi che non è affatto finita. Anzi, forse, il peggio dve ancora venire. E per questo la ricetta di Sassoli è di un totale stravolgimento delle regole comunitarie. C’è, in primo luogo, l’appoggio all’idea del commissario europeo Gentiloni che sia irrealistico immaginare di riattivare nel 2023 le regole del Patto di Stabilità. Accanto a questo, rendere definitivo il meccanismo di indebitamento comune (leggasi Eurobond) che sorregge il Recovery Fund, l’eliminazione del diritto di veto e, last but not least, la cancellazione dei debiti contratti dagli Stati per far fronte alla pandemia.



Se Berlusconi è stato colto in contropiede da questa svolta, e di fatto rimane oggi l’unico a perorare la causa del ricorso al Mes, non è che Salvini e Meloni possano fare salti di gioia. Sassoli riconosce che il Fondo salva-Stati non va, ma la sua ricetta è più Europa (molta di più), e non meno. Risorse al Recovery Fund, ma anche cessione di sovranità, per uscire da una pandemia che appare ancora lunga e drammatica.

L’uscita di Sassoli non è, quindi, quella di un italiano disperato, anche perché in ginocchio ci sono molti altri paesi, a cominciare dalla Spagna. Indica che nei palazzi comunitari cresce la consapevolezza della gravità della crisi economica, che seguirà quella sanitaria. Anche il governo italiano farebbe bene a tenerne conto e a registrare la propria posizione. Forse, anzi, il ministro Gualtieri lo ha capito prima degli altri, e sul Mes ha abbandonato già da qualche tempo la sua posizione da ultrà.

Assecondare questo nuovo vento che spira fra Bruxelles e Strasburgo coincide con gli interessi nazionali italiani, ma non è detto che questa posizione sia destinata a prevalere. Due, almeno, sono le spinte che sembrano opporsi. La prima, la più ovvia, è quella dei paesi del gruppo di Visegrád, che sono pronti a mettersi di traverso sul bilancio, se si continuerà a collegarlo con una pagella democratica. La seconda, la più insidiosa, è la diffidenza emersa nei confronti dell’Italia, esclusa dal recente vertice sul terrorismo (presenti Francia, Germania, Olanda, Austria e istituzioni europee), dopo la scoperta che il terrorista di Nizza era transitato indisturbato dal nostro paese (con relativo stop al dibattito sulla revisione del meccanismo di Dublino).

Nelle trattative europee tutto si tiene; se un paese ha un punto debole, rischia di pagare su più fronti. E l’Italia di punti deboli sembra averne parecchi, compresa una partenza fredda nei rapporti con la nuova amministrazione Usa. Conte farebbe bene a darsi da fare per non rimanere isolato e perdere il treno della possibile radicale riforma dei meccanismi europei di intervento economico.